Appunti sull’Apocalisse

Tempo fa, proprio a Vicenza, dove oggi abito ma all’epoca non abitavo, ho conosciuto una certa ragazza che si faceva chiamare Reginazabo, e che all’epoca gestiva un B&B a tema steampunk (tale Ada Lab, in onore alla prima donna informatica della storia, tale Ada Lovelace), dove animava — anche in collaborazione con altri progetti ora limitrofi, ora nazionali — numerosi eventi di stampo alternativo e underground: proiezioni cinematografiche, laboratori di autoproduzione (fanzine, arte, serigrafia, modellazione e stampa tridimensionale), incontri con consumazione di cibo vegano, conferenze e altre cose — mi si perdoni il termine certamente troppo riassuntivo — abbondantemente fricchettone.

Di Reginazabo, il cui nome reale mi è stato sempre sconosciuto, e di tutti i suoi progetti, non rimane praticamente alcuna traccia nel web, se non alcuni riferimenti puramente nominali in link che conducono a domini in vendita e pagine vuote. Ma Reginazabo compare ufficialmente come traduttrice di un libro che a suo tempo ha goduto di una certa circolazione e relativo interesse. Parlo di Guida Steampunk per l’Apocalisse (2008), di tale Margaret Killjoy, attivista statunitense che nonostante il nome femminile è (anche se non a tutti gli effetti, vista la collocazione in un campo sessuale oggettivamente fluido) un autore maschile, pure lui abbastanza chiaramente (o almeno molto probabilmente) celato dietro quello che potremmo definire un suggestivo nickname.

La casa (cabinet) autocostruita da Margaret Killjoy nei boschi degli Appalachi.

Ebbene, perché mi è venuta in mente questa mia frequentazione di almeno una buona dozzina d’anni fa? La ragione è semplice: il ritorno di una certa cultura apocalittica, connessa all’idea di un tracollo totale del sistema finanziario, economico, sociale, ecologico e antropico su scala più o meno planetaria.

Intendiamoci. Gli statunitensi nutrono da decenni queste velleità da catastrofe imminente che li costringa a sopravvivere in remote regioni del deserto, o dell’Alaska, armati solo di tende, picozze e gadget tipici del DIY (Do It Yourself) di carattere estremo. Ma nel caso del testo di Margaret Killjoy, che potete peraltro (ormai) scaricare gratuitamente dal sito del progetto editoriale che all’epoca lo stampò, il tono generale si allontana notevolmente dalla retorica del comune neo-yankee di New York o Los Angeles. Siamo al cospetto di una vera e propria opera narrativa sotto forma di creative nonfiction. Una modalità che, ripeto, a distanza di svariati anni, oggi mi connette ad altre idee e altri personaggi, molto meno radicali di Killjoy, ma non meno inquietanti (anche se sapienti, simpatici, e pure amici).

Per esempio, in questo video ascolto il “priore” Giacomo Zucco, simpaticamente intervistato da Marco Costanza, mentre si lascia scappare l’esistenza di una sua riserva aurea fisica alternativa a quello che abbiamo imparato ormai tutti a riconoscere come oro digitale, materia che — dico io — dovrebbe essere a dir poco una sua personale religione, nonché l’asset su tutti preferibile per investire nel lungo termine.

Ebbene, da dove deriva questo orientamento alla fisicità del mezzo che dovrà salvarti? Sulla base di quale costrutto mentale qualcuno immagina un mondo senza elettricità e connessione web? Ma soprattutto, sulla base di quale perversione mentale qualcuno può anche solo ipotizzare che l’assenza di questi meccanismi di base possano essere anche solo lontanamente compatibili con una qualsiasi idea di sopravvivenza del genere umano?

Io ho una risposta, e la risposta è subdola e psicologica. Ha a che fare con l’individualismo, ossia l’edonistica immaginazione di un assetto globale che ti possa far vivere da ricco sfondato, in una villa immersa nel verdeggiante panorama di un’isola (magari paradiso fiscale), senza bisogno di società, politica, media, e via discorrendo, o con l’idea che queste cose possano comunque esistere anche senza gente che ci lavora.

Ovviamente siamo al cospetto di un’utopia. Ma tale utopia è talmente suffragata da iconografie diffuse, modelli e illustrazioni da stereotipo AI-based che a un certo punto la parte cosciente inizia a crederci, ad allestire sistemi, impalcature, to do list, atte a costruire il mondo che vorremmo. Con un problema che però si pone, che è quello della parte subcosciente e subliminale, che si ribella, che si tormenta, e alla fine ti viene a dire che no, devi per forza avere un piano alternativo, e questo piano, ancora più folle dell’utopia che l’ha suscitato, dovrà essere a base di cose materiali, che si toccano e che possano funzionare anche senza pagare la bolletta.

Ebbene, io vi dico che questa cosa è impensabile. L’apocalisse a cui pensa Margaret Killjoy non arriverà mai, e non arriverà mai neppure il paradiso di Satoshi Nakamoto, e nemmeno la catastrofe che Zucco vorrebbe arginare a colpi di lingotti d’oro. Primo, perché non ci sarà alcun motivo di aggrapparsi all’oro fisico. Secondo, perché l’oro fisico non avrebbe alcuna possibilità di arginare lo scenario immaginato come sfondo della sua azione di salvagente.

Perché noi siamo già dentro l’apocalisse, e gli zombie sono qui, tra noi, attivi come non mai, agenti in qualità di catatonico oceano ingaggiato per eleggere Tizio e Sempronio alle urne. Oppure ragazzine impegnate in improbabili reel TikTok e Instagram per generare traffico fingendosi animatrici sessuali nomadi, o fuffaguru in grado di farti diventare milionario in pochi secondi, o supporter del governo pagati un tanto a twit, il tutto immerso nel magma rovente delle telefonate indesiderate, degli scammer nigeriani, dei principi Faza3 from Dubai che ti concedono il loro amore per un obolo in satoshi.

Non serve aspettare: l’apocalisse ha il volto sorridente di una startup finanziata per non ottenere dopo due anni neppure un euro di fatturato, avendone spesi 100K, ovvero di uno studente che non può permettersi l’affitto per studiare a Milano, ma sfoggia l’ultimo modello di iPhone.

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