Ebbene sì. Siamo arrivati — io e mia moglie — a vedere anche tutta la terza fantomatica terza serie (il ritorno, venticinque anni dopo, o come volete chiamarla) di Twin Peaks, ivi compresa la diciottesima puntata che si chiude con una molto stressante battuta: “In che anno siamo?” (Urla del tutto ingiustificate della sosia — o non so cosa — di Laura Palmer versione stagionata, e titoli di coda.)
Quest’ultima fatica è l’ennesima di una lunga maratona che ho avuto modo di snocciolare ai miei lettori punto per punto.
Ora, non abbiamo ancora visto il film “prequel” del 1992, ok, e molti di voi diranno che no, che è una lacuna imperdonabile, che bisogna vederlo a tutti i costi per capirci qualcosa, e via discorrendo. Ma io mi chiedo: cosa mai potrei vedere in un film, peraltro riferito a fatti cronologicamente precedenti a quelli narrati nei trenta episodi della serie classica, per capire quello che Lynch ha voluto dire in questi diciotto episodi uno più melmoso e faticoso dell’altro?
Diciamocela tutta. Attori magnifici, qualche momento veramente emozionante, citazioni e auto-citazioni a non finire (molte delle quali divertenti), camei, simbolismi, e chi più ne ha più ne metta… Ma alla fine della giostra (o del giorno, per citare una canzone piantata lì per farci digerire cinque minuti di inutile amplesso) cosa mi resta di questa mitologia televisiva durata ventisette anni?
In termini di cronologia mi sono già espresso, e posso sintetizzare l’idea in poche battute. Twin Peaks nella sua versione storica altro non è che un grande successo in forma di “soap opera tinta di giallo dai toni oscuri e surreali”, dove Lynch ha pigiato l’acceleratore fino a trasformare l’intero progetto, a circa metà della seconda stagione, in un suo giocattolo comunicativo dove sperimentare gli enigmi più disparati in tema di metafore esoteriche, paradossi temporali, simbologie freudiane, possessioni demoniache, abbozzi di teorie cosmologiche sullo spaziotempo, e chi più ne ha più ne metta. La terza stagione altro non è che una colossale fan-fiction che riprende tutto questo materiale per farlo lievitare a livello parossistico, fino a un finale che ovviamente non conclude un bel nulla, ma anzi pontifica ulteriormente sulla superiorità del regista rispetto a noi comuni plebei incapaci di capire.
Ora, intendiamoci. La mia polemica non vuole assolutamente scalfire la grandezza di questo importantissimo cineasta, autore di indiscussi capolavori e caratterizzato da uno stile che, piaccia o non piaccia, ha fatto la storia del linguaggio visivo. Ma il carrozzone quasi trentennale di Twin Peaks, diciamocelo chiaramente, visto tutto in una volta appare come una grandiosa e direi anche faticosa arrampicata sugli specchi per mimare a tutti i costi la genialità onnivora di un prodotto che, in realtà, è solo una cosa: un’occasione mancata.
Le ellissi temporali, i silenzi, le assurdità disseminate ovunque, sarebbero state perfette, se solo il regista avesse dato prova concreta di sapere dove andare a parare. I viaggi nel tempo diluiti fino allo sfinimento, quelle fastidiosissime immagini in sovrapposizione — che sarebbero andate bene in un buon pezzo di Peter Greenaway, magari un documentario da Biennale — mescolate a stop-motion che pure negli anni Sessanta avrebbero giudicato fatta malamente, per non parlare dei tanti, troppi inserti astratti, che non giudico insostenibili in quanto incomprensibili, ma insostenibili perché lesivi di una qualsivoglia razionalità ritmica della narrazione, tutte, ma proprio tutte queste cose le avrei tranquillamente accettate. Ma non così. Non lungo una quindicina di ore condotte senza un minimo di solidità del costrutto “a monte” di ogni movimento e scelta registica.
Certo, mi rendo di quanto tutto il progetto Twin Peaks scaturisca in fondo da un dirottamento folle, da un compito per casa praticamente impossibile: correggimi un mystery classico “a tinte forti” per farlo diventare un trattato di tuttologia esoterica, tenendo presente che le puntate già andate in onda non si possono modificare. Però è Lynch che ha preso questa strada. Lui e solo lui ha voluto forzare la mano della produzione per giungere a questi voli pindarici.
Operazione di successo? Ok. Anche Sanremo — lungi da me il volerla associare a Lynch — ha successo, eppure a me non piace. Tanto più che l’esoterismo spiegato alle masse tramite entità demoniache frutto di errori compiuti sul set, o attraverso effetti sonori fastidiosi, o improbabili band riprese a fine puntata, non credo abbia prodotto chissà che illuminazioni mistiche negli spettatori.
Qua e là, di trovate carine, ce ne sono indubbiamente: il tema del doppio cattivo, i fratelli gangster che alla fine si rivelano di buon cuore (a mio avviso, neppure poi tanto, ma concediamo a Cooper questa licenza poetica), qualche scazzottata dai tratti abbondantemente soprannaturali, e via discorrendo. Ma il problema è un altro, e qui giungo veramente all’ultima parola sul progetto.
Twin Peaks è quello che è di solito una soap opera, ovvero un campo espressivo televisivo profondamente seriale dove il regista, giorno dopo giorno, si chiede: “Che combiniamo oggi con gli attori? A che punto siamo? Cosa possiamo inventarci?” Purtroppo, però, la forma operativa di Twin Peaks non poteva assolutamente andare di pari passo con l’obiettivo sostanziale dichiarato o fatti intendere, ossia la volontà tutta autoriale di illustrare una metafisica prepotentemente soprannaturale che — per definizione — avrebbe dovuto essere non chiara, ma chiarissima “a monte” (perdonate l’implicita battuta che allude solo per caso alle “vette gemelle”) negli intenti del regista. Cosa che non è mai stata; o, se lo è stata, non ha mai avuto modo di dare eloquente prova di sé.
Insomma, a me pare che la troppa carne al fuoco abbia “camminato con Lynch” per troppe puntate. Tanto che ora è veramente giunto il momento di mettere la parola fine, passando ad altro e confidando in progetti più unitari e comprensibili.