Io adoro le radio nel Web. Letteralmente. Sono luoghi pieni di scoperte, di stili, di perle sia contemporanee che antiche.
Oggi per esempio mi è capitato di ricordare le magiche atmosfere synthpop della prima metà degli anni Ottanta con questo brano, e di ripercorrere la musica hindi-pop con quest’altro. Una magia.
Essendo un blogger da quando esistono i blog, non potevo non essere anche un tumblelogger da quando esistono i tumblelog. La definizione allude a un’idea piuttosto semplice: ibridare il blog col microblog, mettendo in relativa discussione la longform a favore di una compilazione che privilegia il ritaglio, la forma breve, il multimediale spinto, l’espressione puntuale e non quella lineare o troppo lineare.
Ovviamente siamo in un territorio estremamente flessibile. Ci sono comuni blog che accolgono tranquillamente morfologie simili a quelle del tumblelog, e viceversa, quindi alla fine della giostra ciò che conta è lo stile risultante, che nel caso di Tumblr — la principale, se non unica piattaforma che tratta tumblelog — credo sia piuttosto riconoscibile.
Ad oggi, il mio tumblelog — Phil Log Book, titolo che segue alcune ispirazioni da Austin Kleon (a sua volta tumblelogger) — non rientra nel novero dei miei luoghi web più aggiornati. Lo uso essenzialmente come piattaforma per rilanciare automaticamente contenuti che scrivo in WordPress (che credo possieda anche Tumblr, da cui l’integrazione). Non so perché. Probabilmente ho la sensazione che Tumblr abbia una comunità così vasta da non essere neppure comunità. Mi spiego, anche se si tratta appunto di un sentore, di una percezione…
Scorrendo lungo il feed dei tumblelog che di volta in volta seguo (credo per ragioni meramente estetiche), mi rendo conto che dietro quei siti ci sono persone senza volto, compilatori quasi automatici che rilanciano e rilanciano foto, GIF animate, appunto ritagli, poesiole e disegni che alludono a insight così istantanei da risultare totalmente autoreferenziali. I contenuti sembrano non arrivare da alcun luogo, e non portano ad alcun luogo…
La comunità di Tumblr ovviamente esiste, ed è oceanica, dilagante. Ma è una comunità che agisce come un ente indifferenziato e inconoscibile. Una pura reazione amplificata a dismisura dal Web.
Eppure lo strumento esiste, ed è potente. Troppo potente per non dedicargli un uso specifico. Quindi sì, mi sono messo a elaborare una teoria del tumblelogging in grado di conferire significato pratico al suo uso deliberato come piattaforma di espressione.
Quindi che dire: mi vedrete su Tumblr, sempre di più…
Ho deciso. Voglio trasformare questo blog in una newsletter. Non una newsletter classica, cacciata a forza nelle mail dei miei seguaci. No, ci mancherebbe. Più che altro una forma newsletter per rendere sensato questo luogo.
Ho appena pubblicato un post sulla necessità di definire l’uso di ogni strumento nel Web. Nello specifico, ho parlato di BlueSky e Mastodon…
Si tratta ora di dare una direzione anche a questo mio blog che, giova ricordarlo, sta all’interno di una community particolare: quella legata a Vivaldi Browser, alla sua filosofia e alle sue meccaniche — in certo senso — ideologiche.
Siccome Vivaldi intende essere uno strumento flessibile, perfettamente personalizzabile e dunque adattabile al singolo utente, ho immaginato questo luogo come un abito da indossare. Questa idea di modularità fa molto rima con la parte legata a Vivaldi Social, a sua vosta espressa attraverso il microblogging di Mastodon.
Vorrei dunque usare la forma post per veicolare una compilazione sequenziale, con link soprattutto a miei contenuti sviluppati proprio nella sezione microblog.
Ogni tanto io e mia moglie andiamo alle Risorgive del Bacchiglione, a una quindicina di minuti dal centro di Vicenza. Ecco alcuni scatti della campagna veneta circostante. Abbiamo preso dei panini con formaggio, sopressa, insalata e prosciutto. Più due aperitivi tipici, chiamati Hugo, generosi e freschi.
Dopo essermi trangugiato le sette stagioni di Pretty Little Liars — titolo curioso, dato che queste tizie passano un sacco di guai non per le loro bugie, ma per l’abitudine di spifferare tutto a tutti — penso di poter dire qualcosa di definitivo sulle serie basate su quello che ormai possiamo denotare come mito dello stalker onnipotente.
Ne avevo già parlato altrove, ma all’epoca ero veramente all’inizio dell’avventura. (Lo sottolineo, sette stagioni. Sette! Per giunta da venti episodi e passa ciascuna, praticamente un’epopea.)
Posto che la serie, a parte qualche ridondanza, mi è in buona sostanza piaciuta, vuoi per questa attitudine a non prendersi troppo sul serio (cosa opportuna, viste le assurdità chiaramente dilaganti), vuoi per un’oggettiva bravura dell’intero team, credo che comunque qualche considerazione vada snocciolata; parlo soprattutto della struttura generale della narrazione, che, dovendo sostenere come detto una lunghezza piuttosto singolare, ha dovuto fare proprie delle tecniche direttamente tratte dal cosmo autoreferenziale delle telenovelas.
Lo schema a un certo punto diventa il seguente. C’è un personaggio misterioso che sembra vedere e potere tutto. Questo personaggio si inserisce pienamente nel filone — relativamente recente — degli “smartphone al cinema” (all’epoca poco più che telefoni cellulari), in quanto avvezzo a inviare continui messaggi a un gruppo di protagoniste, per vendicarsi di non si sa bene cosa. Questo stesso personaggio, ogni tanto, viene svelato, ma la rivelazione è presunta, parziale, ambigua, immediatamente seguita da un rilancio narrativo che rimescola le carte e induce lo spettatore a cambiare prospettiva e a vedere la cosa come “parte di un disegno più complicato”, che evidentemente mette in discussione tutto. In altri termini, il singolo personaggio del mistero, che evidentemente non potrebbe reggere per sette stagioni, è una sorta di collettivo cangiante che risponde a più mandanti, connessi da fili invisibili sempre messi in discussione. E così via, fino alla trovata finale, oggettivamente originale. (Non faccio logicamente spoiler, ma si tratta di un dettaglio che permette di vedere tutta la storia attraverso una chiave di lettura duplice, che si concentra su alcune inquadrature e scene “non troppo o non del tutto comprensibili”, che risolvono il puzzle con oggettiva coerenza.)
Perché parlo di questa serie? Perché mi interessa così tanto uno psicodramma in fondo adolescenziale fatto di reginette della scuola e segreti del paesino della periferia statunitense? La ragione credo sia esprimibile in questa perifrasi.
Io amo la narrativa seriale intesa come sequenza di avventure in un determinato mondo o ecosistema (da Sherlock Holmes a X-Files, per intenderci, passando per certi versi anche per prodotti come Stranger Things, che pur non riferendo la singola avventura a una puntata, ma a un’intera stagione, fanno comunque la stessa cosa). Mi piace, cioè, la serialità pura e sostenibile, che permette di procedere per stagioni e stagioni grazie a uno schema sì rigido, ma sempre nuovo nei contenuti; caso uno, investigazione, soluzione, caso due, investigazione, soluzione, e così via…
Mi rendo invece conto di quanto sia difficile, per gli sceneggiatori, reggere lo schema di storie sempre nuove. Si preferisce dunque creare un mondo e inventarsi non già delle narrazioni autoconclusive, ma delle “situazioni” che permettono di agire con quello che si ha a disposizione. In altre parole, narrazioni che per effetto di continue complicazioni e stratificazioni diventano potenzialmente infinite.
Nel caso di Pretty Little Liars la cosa è stata condotta con maestria. Nel caso del ben più antico Twin Peaks, serie cult di cui ho parlato spesso, i meccanismi sono come sappiamo abbondantemente sfuggiti di mano. Ma la storia è sempre la stessa. Parliamo di narrazioni commerciali, che sfruttano situazioni e fantasie per tenere semplicemente il pubblico incollato allo schermo.
Mi interessa parlarne, evidenziando appunto la differenza tra serialità pura e serialità puramente temporale, perché nel passaggio dall’una all’altra si consuma il conflitto tra mercato e arte, artificio e sostanza, letteratura bassa e alta. Questa conflittualità può essere efficacemente espressa in forma di quesito: Tra l’ispirazione artistica che sfrutta il mercato per diventare fruibile da parte di un vasto pubblico e l’istanza puramente mercantilistica che si fregia di contenuti artistici o intellettuali, cosa prevale?
Lo dico perché c’è stato un tempo in cui i film potevano essere contemporaneamente espressione della cultura popolare e perle della satira di costume, mescolando l’alto e il basso in un tutto che poteva permettersi l’esistenza nel mercato. Negli anni Cinquanta e Sessanta abbiamo in fondo sperimentato questo anche in Italia, no? Prodotti che potevano cioè permettersi di essere storia prima che meccanismo fine a sé stesso.
Lo stalker coi superpoteri ha una natura artistica e intellettuale? Non credo proprio. Funziona, certo. Ma non è l’espediente tramite il quale l’intelletto si porge al pubblico. All’opposto, è l’espediente punto e basta. Piace per passare il tempo, intrattiene. Assume la forma di un tormentone che rilancia sé stesso, sorta di inno alla riconoscibilità.