Di Ritorno (Post di Raccordo)

a red and white train pulling into a train station

Appena tornati da Acquapendente. In treno è comodo, c’è poco da fare. Paradossalmente, ci si sente più liberi ad alternare rotaia e percorsi a piedi. Niente posteggi, niente assicurazioni, niente oneri.

Ho pensato di usare questi giorni per mettere a punto una dieta leggera, propedeutica a quella intermittente, che mi è stata caldamente consigliata. La dieta dei politici, dicono… Sarà pure così, vista la grande pubblicità in materia, ma a me ovviamente non frega nulla di questo aspetto. Ho bisogno di rimettermi in forma per ben altre ragioni.

Un post al giorno? Mi piacerebbe prenderla, ingranarla come ottima routine.

Una certa stanchezza. Luci, atmosfere, dettagli che mi comunicano qualcosa di alieno, o almeno straniante. Il relax di questi giorni è stato certamente estremo. Ma avevo oggettivamente nostalgia di Vicenza.

Primo Gennaio Autodivinatorio

Sono stato quasi tutte le vacanze natalizie chiuso in casa. Il cielo di Acquapendente ha avuto qualche sprazzo soleggiato, che abbiamo sfruttato per due aperitivi in piazza. Per il resto, pioggia e grigiume, come ora davanti alla finestra. Rami secchi, uccellini, e i suoni tipici della vegetazione carica di fredda umidità.

Il primo dell’anno è sempre, per tutti, per troppi, un richiamo a chissà quale cambiamento nella propria esistenza. Ebbene, io credo che la prospettiva sia troppo ampia. L’anno cambia, ma è ovvio che noi restiamo quelli che siamo, e che la nostra evoluzione può solo definirsi lungo la scia della tenacia giornaliera, per non dire ora per ora, minuto per minuto.

Tuttavia mi piace immaginare una nuova attenzione in grado di veicolare certi cambiamenti. Il passaggio annuale è in questo senso un’occasione stimolante, non ci sono dubbi.

Ho deciso, per esempio, di razionalizzare alcuni miei luoghi nel web, primo fra tutti Instagram, che a mio avviso dovrebbe servire a scopi più orientati e meno casuali e autoreferenziali. Interessante per esempio l’uso delle “storie”, che possono essere trasformate in immagini e utilizzate altrove.

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Utilizzo il mio Mastodon Vivaldi Social come luogo dove annotare pubblicamente quello che faccio in senso creativo. Nello specifico, queste carte colorate mi stimolano. Voglio inserirle qui, collezionarle, usarle…

Soliti Scarabocchi Ritrovati

Stamattina ho trovato un mio vecchio taccuino, imboscato nei meandri dello zaino che ho portato qui in vacanza assieme al mio Chromebook. (Ebbene sì, niente Vivaldi Browser. Di solito quando mi muovo vado di standardizzazione mainstream, anche perché la produttività personale in senso lato è messa da parte.)

Ci sono delle immagini veramente cool. Come questa, per esempio. Come vedete, amo utilizzare per questi ritagli la mia succursale di microblogging nel fediverso di Vivaldi Social, che vi invito a seguire e a usare.

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Nel medesimo taccuino ho anche trovato delle cose che mi ricordano la mia passione per il cinema di genere di quello che ho sempre chiamato “il cinquantennio pop”, dagli anni Cinquanta a poco dopo la fine degli anni Ottanta. Non saprei come inquadrarle, ma mi piacciono molto.

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Per non parlare di questo delirio discordiano, che mi suggerisce di continuare una certa lettura che ho messo momentaneamente nel cassetto: L’Occhio nella Piramide (1975). Ma questa è un’altra storia…

https://social.vivaldi.net/@creativephil/111662749235891074

Su Felini e Affini

Quello verso i felini è per me un amore di vecchia data, nato per ragioni misteriose durante l’infanzia, scomparso durante l’adolescenza e la prima giovinezza, e infine rinato grazie a mia moglie. I gatti che oggi mi accompagnano rappresentano quindi enigmi lontani, figli delle sensazioni di un bambino immerso nella provincia veneta degli anni Ottanta, e alimentano la volontà di riscoprire quei mondi anche nel caos offensivo e insopportabile del presente.

Se dicessi di non preferire un certo gatto rispetto a un altro direi una bugia. Per quel che mi riguarda, prediligo i gatti tigrati europei dalle tonalità argentee, stranamente snobbati dai più, forse per la loro elevata diffusione, oppure quelli uniformemente neri o grigi. Ma queste considerazioni su gusti personali ed estetiche lasciano il tempo che trovano, visto che l’amore per un gatto può nascere sia a prima vista, sia, nel tempo di una convivenza, per questioni legati a storie comuni e affinità. Insomma, siamo sempre al cospetto di un mistero.

Di mistero – e di sogni – parlava anche William Burroughs nel suo “The Cat Inside”, dove si autodefiniva Il Guardiano, custode di gatti e loro protettore. Una definizione interessante e cruciale, che condivido in pieno nonostante la mia ovvia distanza dal grande e discusso scrittore statunitense.

Condivido coi felini una proverbiale pigrizia, promossa certamente dal fastidio che provo di fronte alla dilagante idiozia di gran parte del genere umano. In altre parole, più la mediocrità degli uomini tocca il mio sguardo, più aspiro a trasformarmi definitivamente in un gatto.

Stato dell’Essere e Creatività

Riporto di seguito un mio scritto personale, da tempo nel cassetto digitale…

Ciascuno di noi si trova in uno “stato”, ossia in una configurazione dinamica di azioni quotidiane, possibilità e impossibilità, coercizioni, potenzialità, abilità, che compaiono sostanzialmente identiche giorno dopo giorno, e che più o meno lentamente evolvono verso “stati” temporalmente contigui.

Il concetto di “stato” è ovviamente e fortemente legato alle condizioni economiche, sociali e lavorative che caratterizzano la nostra vita. Non per niente si parla di “status sociale”, utilizzando una parola di diretta derivazione.

Il concetto operativo e concreto di “stato” individua due affermazioni immediatamente conseguenti: la prima è che noi “compiamo azioni all’interno del nostro stato”, e la seconda è che “ciò che facciamo è inevitabilmente legato e conforme al nostro stato”, ovvero può esistere solo se coerente col medesimo.

Due esempi per capire cosa intendo sono presto detti, ma il secondo presenterà una questione piuttosto interessante da valutare.

Il primo: Indipendentemente da quelli che possono essere i miei gusti personali in materia di automobili, io non guido un Ferrari Testarossa per il semplice fatto che il mio “stato” non mi permette di acquistare e mantenere un’auto così lussuosa. L’auto che posso permettermi di guidare è coerente col mio “stato”, ed è evidentemente un’utilitaria.

Il secondo: Il mio “stato” può permettermi di acquistare e leggere un libro. Ma questo libro, che evidentemente leggerò “nel mio stato”, ossia non già all’interno di una suite d’hotel categoria lusso a Londra, ma con tutta probabilità al parco, o nel salotto di casa, perché lo sto leggendo? Semplicemente per intrattenermi o imparare qualcosa che posso esercitare “nel mio stato”, oppure per passare dal mio stato attuale a un altro stato?

In questo dilemma c’è tutta la difficoltà interpretativa tipica del dare un senso a quello che facciamo, ossia nello scegliere in modo lucido e attendibile tra due estremi: da un lato il fare le cose solo per renderci migliori all’interno del nostro stato; dall’altro il farle per trasformare il nostro stato in qualcosa d’altro, ovvero in un “altro stato”, che si suppone migliore e superiore.

Logicamente, tornando al tema della creatività, le cose non sono poi così chiare. C’è chi ama sia il suo mestiere che i vari hobby che il medesimo permette di svolgere attraverso i frutti reddituali che lo accompagnano, oppure chi non sa bene perché stia facendo una certa cosa, in quanto non ha informazioni bastanti su sé stesso, o su ciò che lo circonda, o su entrambi.

Dal mio punto di vista, credo che anche in ambito creativo sia fondamentale capire dove si vuole andare ponendo in atto un certo comportamento. Sto scrivendo il mio diario personale per giungere a scrivere un romanzo, oppure lo sto scrivendo semplicemente per tenere traccia di idee e nomi che possono rivelarsi interessanti?

Anche in questo senso le azioni possono comunque fare riferimento a uno scenario molto ambiguo. Io posso per esempio iniziare qualcosa per puro divertimento o intrattenimento “all’interno del mio stato”, probabilmente ritenuto immutabile o ben poco modificabile. Questa passione potrebbe però diventare pure un mestiere, ammesso e non concesso che io cerchi questa svolta.

Per quel che mi riguarda, credo serva ragionare in modo aperto, ma nel contempo lucido. Se non cerchiamo qualcosa, può esserci anche la possibilità di trovare “ciò che non sappiamo ancora essere quello che cerchiamo”, ma è piuttosto difficile che questo avvenga. Per trovare una via dobbiamo necessariamente immaginare degli scenari che possano essere ragionevolmente adatti a noi.

In generale, serve fare esperienza, ovvero sporcarsi le mani. Difficilmente possiamo intuire la portata di un atto creativo senza averlo implementato. Quindi la pianificazione è importante, ma non vale nulla, in termini percettivi, se non si traduce in un’azione concreta dove mettiamo in gioco quello che sappiamo fare.

Società Creativa: Pure Questa Mancava

Ora, io mi considero una persona certamente propensa all’idea di cambiamento, di miglioramento, di progresso sociale, e non ho alcun problema a prendere seriamente in considerazione l’idea, che posso dire, di spesa pubblica, di investimenti sociali, di un reddito minimo, di tutele in qualche misura pubbliche dell’essere umano, nonché di soluzioni che possano anche passare attraverso idee sfidanti legati ad analoghe misure di welfare. I miei studi mi hanno insegnato una cosa: per decidere quale di due serie numeriche andrà più veloce dell’altra c’è solo un modo, e questo modo è fare i conti. Nessuna ideologia, nessun preconcetto, nessuna intuizione istintiva: solo fare i conti e vedere oggettivamente se — tornando a noi — la tal cosa si può fare o meno.

Però quando queste affermazioni cessano di essere legittimi campi di studio, e diventano slogan così ridicoli da rasentare (e superare) addirittura la “memetica” web più idiota, allora no, non penso si possa più parlare di politica, o di società, o tanto meno di intellettualismo o filantropia, ma di modalità ormai perfettamente in linea con quanto di più becero abbiamo conosciuto in questi ultimi anni: dalle teorie ufologiche al terrapiattismo, tanto per intenderci.

Sto parlando di questa nuova “cosa” che si chiama Società Creativa, sorta di indecifrabile proposta para-politica dalle simbologie vagamente massoniche, che punta a un rinnovamento “spirituale e morale” dell’umanita per molti versi del tutto condivisibile, anche se estremamente banale e già promosso in decine e decine di costituzioni e dichiarazioni da almeno un secolo ad oggi, e per molti altri così assurdo da far pensare veramente a una burla in stile esperimento sociale all’americana.

Infatti, se i fantomatici otto principi della proposta risultano, almeno astrattamente, del tutto ragionevoli e appunto largamente condivisibili da chiunque non abbia a cuore lo sterminio del genere umano, è sul piano degli obiettivi concreti che la cosa induce l’attonito lettore a procedere prima con un vago sbigottimento, poi con divertita incredulità, e infine ad affidarsi al più vicino pacchetto di kleenex per asciugarsi le lacrime dal ridere.

Ma andiamo a scorrere alcune delle semplicissime misure avanzate dai nostri:

  • Un reddito incondizionato mensile pari a dollari diecimila.
  • Centomila dollari alla nascita del primo figlio, duecentomila alla nascita del secondo, trecentomila al terzo, e così via. Siete ancora lì?
  • Alloggio abitativo e confortevole per tutti, di almeno 60 metri quadrati. Cioè, ma con diecimila euro al mese, che diventano ventimila se ho una moglie, e centomila se niente niente faccio un figlio, che bisogno ho di farmi dare la casa dall’ATER? Vado a stare in affitto in una megavilla in centro!
  • Lavorare quattro ore al giorno, quattro giorni la settimana. Anche perché, giustamente, quando caspita posso avere il tempo di spendere diecimila euro al mese se lavoro troppo?
  • Stabilità economica garantita. What?
  • Uso illimitato e gratuito delle utenze, luce, acqua, gas… Infatti diecimila euro al mese non bastano, lo sanno tutti, no?
  • Cancellazione di tutti i debiti, mutui, ipoteche. D’altra parte, con tre figli e trecentomila euro a disposizione, chi mai comprerebbe casa in contanti!

Lascio a voi le relative considerazioni, perché, a furia di ridere, a me è passata pure la voglia di ridere.

Scrittura e Telescrittura: una sorta di Manifesto

Spesso, per non dire quasi sempre, mi capita di pensare al passato, al mio passato di bambino e adolescente durante tutti gli anni Ottanta e buona parte del decennio successivo. Nel pensarci, le considerazioni più ricorrenti si accompagnano a un senso di disagio nel percepire la radicale differenza tra quel mondo e il nostro mondo. Una differenza che, attenzione, non riguarda minimamente il “tempo perduto” di quelli che per ovvie ragioni, per me come per chiunque, sono anagraficamente gli anni della giovinezza confrontati con quelli della piena maturità, ma all’opposto allude propriamente a un radicale, concreto, oggettivo mutamento nella ritmica di vita, nel rapporto con la società, per non parlare di variabili come cultura, politica, ideologia ed estetica, che ritengo ormai quasi totalmente deteriorate.

In altre parole, rifletto sempre più frequentemente sulle caratteristiche che costituiscono in modo più lampante la differenza tra quei tempi e i nostri, ponendomi in fondo sempre le stesse domande. Cosa è cambiato effettivamente? Cosa c’è oggi che all’epoca non c’era? Cosa c’era che oggi non c’è?

Le sole risposte che riesco a dare riguardano il senso del contesto, che in quella che abbiamo chiamato a grandi linee Prima Repubblica era a mio avviso drasticamente meno “affollato”, e nel contempo popolato da “funzioni culturali ed estetiche” immensamente superiori a quelle attuali.

Affollamento e bassezza culturale sono, in questo senso, le cifre più salienti di questo mondo, ovvero quelle che costantemente affiorano dalle mie elucubrazioni in materia, e il disagio che provo nell’esistere al suo interno di questo scenario affollato e greve deriva credo piuttosto direttamente dalla commistione di entrambe, direi perfettamente veicolata dai nuovi sistemi telematici di comunicazione globale.

Tra le attività umane che ritengo maggiormente influenzate da queste dinamiche c’è sicuramente la scrittura, e con essa, come ovvio, tutte le sue più o meno indirette derivate: lettura, intellettualismo, editoria, giornalismo, letteratura, fino alla fattispecie stessa dell’essere autori attraverso la parola scritta.

Parlando per esperienza diretta, io sono stato tra i primi a trovarmi perfettamente a mio agio nel mondo del cosiddetto “blogging”, ossia quella prassi di tenere un diario nel web. Tuttavia quelle prime esperienze risalgono circa agli inizi anni Duemila, in un contesto in cui Internet era effettivamente una frontiera di pura espressione libera, in cui il passato più remoto incontrava unicamente i vantaggi della modernità. La scrittura, per intenderci, continuava ad essere scrittura, e non aveva ancora conosciuto le conseguenze, a mio avviso disastrose, del social networking di massa.

Oggi, nel mettermi a scrivere su carta, percepisco tutta l’inutilità di un gesto che di fatto non ha più alcun senso, se non quello di annotare la lista della spesa o i numero di telefono da chiamare durante la giornata. Hanno coniato anche un acronimo: FOMO, ossia Fear Of Missing Out, paura di perdersi qualcosa. Ma non si tratta di una pura percezione illusoria. No, la scrittura oggi come oggi non può effettivamente più prendersi il lusso di essere una prassi solitaria e concentrata, pena l’esclusione dell’individuo dal flusso ormai continuo di informazioni.

Questa forzata trasformazione della scrittura è un fatto positivo o negativo? Ovviamente la mia indole tenderebbe a scegliere la seconda risposta, visto che non ci sono dubbi su quanto io sia nostalgicamente legato a un mondo dove gli autori erano autori, i libri non venivano sfornati da ghostwriter al soldo di agenzie pubblicitarie connesse con le statistiche di gradimento del web, e gli intellettuali avevano una voce e un seguito. Tuttavia cosa accadrebbe se iniziassimo a fare le cose esattamente come le facevamo un tempo? Molto semplicemente, faremmo finta di vivere in un mondo che non esiste più, e le nostre azioni andrebbero a riprodurre l’equivalente di una triste battaglia contro i mulini a vento.

Ecco perché ritengo che quella che io chiamo ancora “scrittura” debba anche rinascere in qualcosa che ho chiamato “telescrittura”, ovvero una forma immediata e militante di scrittura pensata per un mondo liquido, immediato, denso di multimedialità e comunque ancora in grado di percepire un lavoro interessante, laddove, ovviamente, esistente.

La telescrittura non snocciola opinioni, ma descrive argomentazioni inconfutabili. Non parla di idee, ma di fatti, di progetti, di realtà oggettive. La telescrittura veicola servizi, connessioni, proposte, chiamate all’azione, incontri e progettualità: essa incarna il superpotere digitale di un intellettuale rinato nel regno della tecnologia di massa.

Senza tanti giri di parole, io la immagino come una macchina da scrivere direttamente connessa al pubblico nella sua accezione più caotica e indifferenziata.

Alla luce di queste considerazioni ho rivisto un po’ tutta la mia presenza nel web, orientandola a funzioni non più di “sostituzione” dell’opera d’arte o d’espressione, ma di “connessione” tra me e il generico pubblico, che di volta in volta può essere rappresentato tanto da fruitori quanto da colleghi, amici, partner in affari, collaboratori e nodi della mia rete.

(To be continued…)

L’autore ci tiene a sottolineare che: Questo post è stato suscitato dalla consapevolezza che agli inizi della sopraccitata Seconda Repubblica era ancora possibile sentire un intellettuale vero parlare in perfetto francese della sua seconda fatica letteraria.

Non Parlo di Politica Ma a Volte…

Non credo che utilizzerò questo blog per parlare di politica, di quella funzione ormai inutile, ovvero automatica, che soprattutto in Italia ha raggiunto livelli di alienazione dal reale degni di un romanzo distopico primonovecentesco.

Tuttavia nel mio Masstodon, ogni tanto, qualche considerazione la troverete…

https://social.vivaldi.net/@creativephil/111220410474538055

Idee Preliminari sul Possibile Compbook

Intendiamoci: I miei composition book, che alcuni autori chiamano compbook, ovvero quei supporti analogici che uso mimando uno scopo paragonabile a quello della “scrittura scolastica”, non somigliano troppo a questo classico qui di fianco, che iconograficamente si associa alla scrittura più o meno creativa praticata nei campus e delle università statunitensi.

Mi piaceva però proporre un’immagine che fosse indicativa di ciò che penso nell’uscire quasi completamente dalla logica del puro visual thinking.

(A tale proposito avevo pure anticipato la cosa in un post.)

Mi sono reso conto che devo scrivere prosa su supporti grandi, almeno A4 direi. Per questo la cosa migliore sarebbe usare direttamente una risma di fogli, ma la cosa è ben poco applicabile alla necessità che ho di portarmi dietro le cose. Quindi per forza mi devo proprio rivolgere a formati “da compbook”, che di solito ruotano attorno alle proporzioni dello schema detto B.

In questo senso, adoro i prodotti della Rhodia…

Tuttavia credo che opterò per prodotti molto più semplici, che possano ricordarmi i vecchi quaderni di trenta, quarant’anni fa. Carta umile, penne a sfera, cose così…

Lo Stile dei Miei Nuovi Diari Visuali

La creatività deve imporre limiti e cornici. In questo senso, mi sono obbligato a usare i (miei amati) quaderni Clairfontaine (serie age bag) in un solo e unico modo, ovvero con pennarelli neri a punta ora tonda e grossa, ora a pennello. Una sola variante è permessa: il collage con sticker vari e carte incollate (scrapbooking, si direbbe). Ecco un esempio di cosa intendo…

Più che banalmente evidente, la somiglianza coi diari di Austin Kleon è deliberatamente programmatica. Voglio annotare diari esattamente come lui; non per copiarlo, ma per godere della stessa comodità nella quale lui sembra sguazzare nel compilarli.

La scelta di uno standard è infatti per me un problema molto sentito, non tanto per la scelta in sé, quanto per il tempo che mi costringe a dedicarle. Ergo, devo decidere a monte, imponendo una sorta di schema razionale da rispettare.

Quanto alla scrittura in sé, ho deciso invece di esercitarla completamente in altri contenitori, in forme che non somiglino minimamente a quelle del visual thinking.

Ma questa, come dicono i grandi, è un’altra storia, e verrà raccontata altrove.

Sul Cosiddetto Disegno Brutto: Confutazione

Oggi sono incappato in un sito veramente molto ben realizzato, appassionato e soprattutto utile. A me la dicitura “disegno brutto” però non piace molto, perché in realtà i risultati di questa metodica non porgono assolutamente un output effettivamente brutto. Più che altro direi selvaggio, spontaneo, immediato, bambinesco, con uno stile che ricorda peraltro svariati grandi artisti della grafica e della pittura (Saul Steinberg, Paul Klee, solo per citarne alcuni).

Se poi ci spostiamo al campo del pensiero visuale, l’adagio di Mike Rohde parla chiaro: riferendosi alla tecnica della sketchnote (da lui ideata), la denota precisando che riguarda le idee, e non l’arte. Quindi, nel parlare di immagini che servono a pensare, ci riferiamo comunque a una forma di disegno che si valuta per la sua funzione, e non per il suo contenuto estetico.

Ma è veramente così? Secondo me no, ovvero non proprio, e la realtà è ancora più sottile e intrigante. Cercherò di spiegarla al meglio.

Esiste a mio avviso un’estetica della funzionalità, una sorta di punto intermedio, di proporzione quasi aurea, che dovrebbe intercettare un affinarsi lungo la via del disegnare non manieristico, ma comunque legato a un’efficacia comunicativa che è nel contempo funzione e bellezza. Esiste, cioè, un galateo che non allude alla bellezza, che so, di un’immagine copiata a mano con precisione fotografica, o di uno schizzo in perfetta prospettiva annotato da un abilissimo architetto, ma risponde a esigenze diverse, a sensibilità alternative, nonché a istanze altrettanto conformi alla bellezza in senso lato.

Il rifiuto del manierismo non è il rifiuto di una certa concezione dell’equilibrio compositivo, che può tranquillamente essere fatto di eccessi e di misure, in un mix che la pratica può efficacemente individuare.

Il mio modo di disegnare è solo mio. Procede per tentativi, giustapposizioni, montaggi, che hanno come unico scopo la costruzione di qualcosa che serva. Tutto qui.

Synthwave: un madrigale

Attraverso questo velo di suono
traspare il volto dell'amore
che io ascolto in mono.
Beatamente vibrante nel suo colore,
che è carminio e fucsia e lapislazzulo dorato,
produce una sorta di elettronico calore.
Fortemente ambrato
e dal sole di pixel delicatamente sfiorato.

Ogni tanto mi diletto con qualche forma poetica antica. Interessante l’associazione a un tema tutt’altro che antico. A mio modo, faccio il postmoderno. Ovvero il post-postmoderno.