Twin Peaks: l’Ultimo Tassello

Eccomi dunque giunto a colmare l’ultima, ultimissima lacuna che a detta di tutti dovevo colmare per il completamento di quello che ormai posso chiamare l’affare Twin Peaks. Vi ho già abbondantemente parlato delle prime due “storiche” serie, per poi saltare direttamente alla terza, ovvero quella dei venticinque anni dopo. Evidente che mi mancava il fantomatico film del 1992, che a detta dei tutti di cui sopra mi avrebbe fornito le chiavi interpretative per chiudere il cerchio e comprendere tutto.

Ebbene, il film Twin Peaks: Fuoco Cammina con Me non ha fatto altro che confermare in pieno il giudizio generale che ho già dato. Un giudizio sostanzialmente negativo, che torna a interpretare l’intera operazione come una buona intuizione iniziale, trasformata dopo poco — forti del grande successo di pubblico — in una sorta di giocattolo registico nelle mani di un Lynch troppo seriale per essere astratto, e troppo astratto per essere seriale.

La trama è quella di un prequel fatto solo per tentare di spiegare cose che non solo non si spiegavano nella (da poco conclusa) serie storica, ma non erano neppure state prese in considerazione, essendo la storia complessiva e risultante una claudicante improvvisazione su temi di un esoterismo più ridicolo che inquietante.

Giunti a metà film veniamo a sapere:

  • che un altro fatto delittuoso è stato precedentemente consumato;
  • che alcuni agenti FBI sono scomparsi nel nulla;
  • che un agente impersonato da David Bowie è invece dal nulla ricomparso (per fare quella che, a questo punto letteralmente, è proprio una comparsata e niente più);
  • che il padre di Laura Palmer è uno che cambia personalità non si sa bene per cosa (ovvero, si sa, ma il dettaglio non fa né caldo né freddo);
  • che nel retroscena ci sono delle storie di droga (appiccicate con lo sputo sulla pellicola);
  • che Laura Palmer si droga, si concede carnalmente e assorbe su di sè — stile Jack Torrance — tutte le forze esoteriche della zona, impazzendo ogni tanto e poi tornando perfettamente normale senza alcun motivo;
  • che ogni tanto saltano fuori un nano, un’anziana signora, un bambino elegantemente vestito, una maschera, e la lista potrebbe continuare.

Il tutto viene consumato all’insegna di dialoghi brutti, artificiosi e stereotipati, messì lì tra una scena inefficacemente misteriosa e l’altra chiaramente per tentare didascalie di una logica pregressa che il regista è il primo a ignorare completamente. Ma non solo: le scenette “boschive” notturne dove la Palmer, assieme al giovinastro di turno (Bobby in testa), mette in scena tutta sé stessa nell’esplodere istericamente su questo o quel tema rasentano la recitazione da cult horror di serie Z anni Ottanta.

Sembra veramente che la produzione abbia prescritto a Lynch un film “tanto per portare al botteghino i fan di Laura Palmer dei primi episodi poi gettati alle ortiche”, col solo intento di rivelare un mistero fatto di pezzi che non collimano, o che delineano un background incoerente che nessun misticismo potrà mai rendere efficace.

L’intera operazione — parlo ovviamente di quella storicizzata — arriva, con questo film, a deteriorarsi in un faticoso collage di spezzoni che sulla carta dovrebbero funzionare come zuccherini per il pubblico, ma che in realtà si guardano senza alcun interesse: Laura Palmer fa la zoccola e dice una parolaccia, Laura Palmer custodisce segreti e fa una faccetta strana, Laura Palmer musa di non so che cosa, Laura Palmer intermediario dei mondi e viaggiatrice del tempo non si sa bene come, e via discorrendo lungo una sequenza dove l’antecedente non produce nulla per rendere appetibile il conseguente. Effetto finale: il film amatoriale di un liceale che non sa bene che rappresentare, e filma le compagne di classe più carine.

Insomma, se la seconda stagione, una volta presa la piega del “tutta colpa di BOB”, aveva purtroppo già fatto dimenticare gran parte della verve grottesca e torbida che si respirava nella prima, con questo lungometraggio l’oblio verso qualsivoglia buona idea potesse scaturire dalle “Vette Gemelle” appare totale e definitivo.

Più precisamente, in questo film gli spezzoni più lynchiani si alternano, sempre inutili e vacui, a sequenze che danno l’impressione di raccordi chilometrici per giustificare la tale battuta, questo e quel passaggio, oppure anche solo per tentare di distrarre lo spettatore, fino a che — in quella specie di orgia che viene organizzata nel bar malfamato — solo le tette al vento della Palmer sembrano costituire l’unica motivazione plausibile per salvare qualcosa del lungometraggio, con tutta la tristezza che ne consegue.

La domanda, scena dopo scena, sgorga spontanea: ma veramente stiamo parlando dello stesso regista di Cuore Selvaggio e Velluto Blu?

Avete presente il vecchio adagio della buona narrazione? Mostrare, non dire. Ecco, in questo film l’epopea del “dire” si squaderna in tutta la sua prepotente inefficacia. Tutto è detto, tutto è didascalico, nulla viene mostrato, per il semplice fatto che non c’è nulla da mostrare per rendere credibile ciò che solo la parola, imprecisa e vuota, può spiattellare nella sua funzione di pura supplenza. I concetti chiari vengono ripetuti più e più volte, creando nello spettatore un senso di profondo fastidio: della serie ok, non sono imbecille, vai avanti… Quelli oscuri, invece, all’opposto vengono appena abbozzati, tanto che alla fine lo spettatore stesso comincia ad annoiarsi.

L’uso del commento sonoro, poi, è pessimo. A parte i bei temi conduttori di Badalamenti, certamente efficaci nei primissimi episodi, qui comunque decisamente meno sensati, l’idea di caratterizzare le scene inquietanti con specifici sottofondi astratti e cavernosi, mandati in loop senza alcun criterio, risulta essere, come dire, pura teoria, in quanto l’intento appunto forzosamente didascalico ne affiora decuplicato nella sua dichiarata volontà di stupire chi proprio non ha alcuna intenzione di stupirsi.

Le sequenze procedono circa così: la scena parte tranquillamente, poi accade qualcosa che introduce urla, frasi sconnesse, follia, visualizzazioni di luoghi “simbolici” che in realtà non vengono a dire un bel nulla, citazioni, che parimenti ci lasciano del tutto indifferenti, e infine tutto viene ricondotto alla normalità per effetto di frasi fatte, commenti idioti e banalità di ogni genere. Fine della scena, passiamo ad altro, e via così fino alla fine del film, non senza momenti di comicità involontaria, come detto.

Riassumendo: Se appunto escludiamo le idee e gli oggettivi risultati delle prime puntate, nel suo complesso ilTwin Peaks del periodo 1990-92 finisce per diventare il brodo allungato a dismisura attorno a un setting presto spiegato: In una certa cittadina, alcune giovanissime ragazze si prestano a giochi sessuali orditi da maturi mandanti altolocati, conditi da traffici di droga e prostituzione, e con sconfinamento in incesti e altre nefandezze. A partire da una certa puntata, è di rigore attribuire questa libidine distruttiva a forze soprannaturali, la cui descrizione — sempre più sfuggente ed ellittica — è affidata unicamente all’arbitrio di David Lynch, sulla base di quello che ha sotto mano: oggetti, materiali girati a caso, attori non professionisti, improvvisazioni del momento.

Sul serio. Non sto scherzando. Twin Peaks alla fine è questo e solo questo. Un episodio pilota di successo — con qualche idea veramente interessante (l’impianto di soap opera affiancato a una trama di investigazione, con personaggi grotteschi) — tramutato passo dopo passo in una sorta di isteria collettiva a puntate, dove qualsiasi unità formale e contenutistica viene a disintegrarsi pezzo per pezzo dopo l’avvento di BOB (l’entità demoniaca, o forse una delle entità demoniache implicate, non saprei dire con certezza) e di tutti i voli pindarici per darne una giustificazione. Punto, fine, stop. La stessa presenza fugace di David Bowie appare come ultima spiaggia per raccattare un consenso aggiuntivo, da affiancare al passaparola sulle tette della Palmer rivelate al mondo.

Il prequel in oggetto carica sul suo groppone tutto il peggio, facendo dimenticare il meglio, ahimè lasciato alle spalle un anno e passa prima. Lynch, amante delle sardine e del tiramisù, del risotto ai porcini e del frullato di banana, ha voluto confezionare una ricetta che includesse tutti questi ingredienti. Poi si è reso conto che faceva schifo: ha aggiunto zucchero, ma diventava troppo dolce. Ha aggiunto sale, ma virava sul salato. Poi si è reso conto che non funzionava. L’ha messa nel mixer per ottenere una salsa, e ha continuato a usarla per condire la scena successiva, ancora e ancora, fino a estreme conseguenze.

Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *