A volerla dire con una perifrasi, si potrebbe intendere la nostra epoca come tripudio di un atteggiamento di iper-semplificazione dicotomica che, a fronte di un’oggettiva esplosione della complessità di ogni ordine, grado e latitudine, propone come soluzione non già, come si dovrebbe, una serie di strumenti per abbassare il grado della complessità stessa, bensì una polarizzazione radicale e assolutamente acritica che si perde il classico bambino coi panni sporchi. In sostanza, oggi come oggi il pensiero unico vuole o tutto nero o tutto bianco.
Ecco dunque le cazzate di ogni giorno… Se sei contro Trump sei a favore della Harris. Se non ti convince la woke-culture sei fascista. Se sei contro un’adesione incondizionata al Partito Democratico sei un sostenitore delle destre populiste. Se metti in discussione il contante sei uno sporco comunista che vuole tassare tutto perché invidioso. E via discorrendo, lungo l’infinita gamma di — appunto — cazzate che contraddistinguono la versione di chi o ha un quoziente intellettivo troppo basso per ragionare su una realtà sfumata e a colori, oppure è più banalmente in malafede, e monetizza il caos attraverso meccanismi di varia natura.
Ho fatto questa premessa per parlare in realtà (anche se solo apparentemente) di tutt’altro: nello specifico, pensate un po’ quanto il volo sembri pindarico, della letteratura fantasy.
La ragione è legata all’aver da poco concluso la seconda stagione di una recente serie televisiva, Gli Anelli del Potere, derivata dal classico romanzo “di culto” Il Signore degli Anelli, a sua volta portato al cinema con la celeberrima trilogia di vent’anni fa, concludendo per quel che mi riguarda una sola cosa: a parte l’originale libresco, che non ho mai letto (fatemi causa), ma che di certo sarà un capolavoro (e vi assicuro che non ho alcun motivo “letterario o intellettuale” per dubitarne), l’intero corpus di opere cinematografiche fino ad oggi derivate dall’universo tolkieniano mi appare come la quintessenza della noia più assoluta.
Già i film di Peter Jackson non sono mai riuscito a digerirli. Lenti, lentissimi, immobili, con paesaggi banali, colori banali (verde acqua e muschio, terra, legno, pietra e cielo azzurro… fine della storia) diluiti in paesaggi senza alcun elemento di originalità. E poi quelle razze, esse stesse di una banalità e (diciamocelo chiaramente) bruttezza assoluta… Per non parlare della storia: una serie di anelli che (1) hanno poteri magici che da soli basterebbero a distruggere una galassia e (2) agiscono sulla mente e sul corpo del possessore solamente se quest’ultimo li tiene appiccicati a sé; ma ha senso tutto questo?
Insomma, veniamo al dunque. Oggi come oggi, riferendosi anche alla sola parola fantasy, nessuno, dico nessuno oserebbe fare un nome diverso da quello di Tolkien, riferendo l’intero genere alle sole sue elucubrazioni sul tema delle mitologie norrene e delle — ribadisco, e nessuno si senta offeso — noiosissime vicende di personaggi ora fastidiosamente bruttarelli, ora fastidiosamente bellocci, ora di una banalità disarmante. Mi viene da dire, se proprio vogliamo parlare di tradizioni, che era molto più originale il Medioevo italico tratteggiato in Brancaleone alle Crociate! Al più il “nostro” fantasy potrebbe spingersi ad altri successi al botteghino, tipo Harry Potter e vari suoi cloni.
A latere: Trovo interessante e istruttivo il fatto che un dark fantasy come il ciclo della Torre Nera di Stephen King non sia ancora stato tradotto in una saga filmica, se non per un (giustamente) dimenticato filmino (del tutto avulso dall’originale storia kinghiana) che di fatto conferma la regola: qui vogliamo solo fantasy a base di orchi e nani…
Tuttavia il fantasy è stato un genere incredibilmente fertile, e battuto da una miriade di autori che nulla avevano a che fare con le scolorite e pallide atmosfere wagneriane aventi a che fare con cavalieri puri di cuore e altre derivate arturiane, che nel dettato di Tolkien — o almeno, del Tolkien volgarizzato in immagini in movimento — assumono una valenza così totalizzante da assumere la caratterizzazione di un monoideismo quasi sconcertante, oltre che, appunto, inefficace e noioso. Cioè: una certa vocazione alla semplificazione e al sistematico oblio ha oggi come oggi letteralmente cancellato, censurato, occultato, fatto fuori e dimenticato autori che nella mia infanzia e adolescenza riempivano letteralmente i cataloghi di case editrici del calibro di Fanucci e Nord, per non parlare della stessa Mondadori.
Un esempio che mi piace citare è questo interessante romanzetto (di cui trovate alcune dettagliate informazioni in questo link), che si intitola Il Viaggio di Hiero, e che mi capitò tra le mani quando appunto fu ripubblicato da Fanucci — che lo aveva già fatto uscire nel 1976 — in una conturbante collana di fiammanti tascabili, nell’ormai lontanissimo 1991 (ero poco più che quindicenne). L’autore è un certo Sterling E. Lanier, nome ovviamente quasi sconosciuto, esattamente come restano praticamente sconosciuti tantissimi altri autori, come ovvio quasi tutti statunitensi, che però ebbero modo di giungere fino a noi in Italia durante tutti gli anni Settanta e Ottanta, fino appunto a quasi un decennio dopo.
Alcuni di loro — cioè degli appartenenti a questa sorta di grande cenacolo yankee della letteratura di genere fiorita nel secondo dopoguerra — sono ricordati ancora oggi, come, che so, un Philip Josè Farmer o un Fritz Leiber, ma tantissimi altri sono annoverabili nel grande oceano delle meteore. Eppure l’interezza della loro opera ha costituito l’ossatura di un fantasy veramente originale, diverso, colorato, esuberante e intellettualmente vivace.
Tornando al romanzo di cui sopra, non starò logicamente a raccontarvi la trama, anche perché in tutta sincerità la ricordo solo per sommi capi. Basti dire però che il viaggio del titolo si inoltrava in uno scenario da “dopo catastrofe”, dove tra animali mutati e senzienti, telepatie, foreste pluviali e incontri stranianti, il protagonista giungeva a recuperare un oggetto risalente a quella che per lui era la preistoria: sto parlando di un computer!
Insomma, con questo esempio del tutto banale mi premeva farvi capire come questi ultimi trent’anni siano sostanzialmente passati a dimenticare tutto, e a semplificare fino all’inverosimile quel poco che rimaneva: il gusto, la letteratura, il cinema, la politica, il pensiero, le idee… Tutto… Anche l’immaginario ne risulta sconvolto, ovvero semplificato in dicotomie, oltre che disarmanti, anche false (basti pensare a termini ormai svuotati di ogni senso sia filosofico che storico, come Destra e Sinistra, ridotti a slogan da analfabeti funzionali).