Narrazioni Infinite e Considerazioni su Arte e Tormentoni

Dopo essermi trangugiato le sette stagioni di Pretty Little Liars — titolo curioso, dato che queste tizie passano un sacco di guai non per le loro bugie, ma per l’abitudine di spifferare tutto a tutti — penso di poter dire qualcosa di definitivo sulle serie basate su quello che ormai possiamo denotare come mito dello stalker onnipotente.

Ne avevo già parlato altrove, ma all’epoca ero veramente all’inizio dell’avventura. (Lo sottolineo, sette stagioni. Sette! Per giunta da venti episodi e passa ciascuna, praticamente un’epopea.)

Posto che la serie, a parte qualche ridondanza, mi è in buona sostanza piaciuta, vuoi per questa attitudine a non prendersi troppo sul serio (cosa opportuna, viste le assurdità chiaramente dilaganti), vuoi per un’oggettiva bravura dell’intero team, credo che comunque qualche considerazione vada snocciolata; parlo soprattutto della struttura generale della narrazione, che, dovendo sostenere come detto una lunghezza piuttosto singolare, ha dovuto fare proprie delle tecniche direttamente tratte dal cosmo autoreferenziale delle telenovelas.

Lo schema a un certo punto diventa il seguente. C’è un personaggio misterioso che sembra vedere e potere tutto. Questo personaggio si inserisce pienamente nel filone — relativamente recente — degli “smartphone al cinema” (all’epoca poco più che telefoni cellulari), in quanto avvezzo a inviare continui messaggi a un gruppo di protagoniste, per vendicarsi di non si sa bene cosa. Questo stesso personaggio, ogni tanto, viene svelato, ma la rivelazione è presunta, parziale, ambigua, immediatamente seguita da un rilancio narrativo che rimescola le carte e induce lo spettatore a cambiare prospettiva e a vedere la cosa come “parte di un disegno più complicato”, che evidentemente mette in discussione tutto. In altri termini, il singolo personaggio del mistero, che evidentemente non potrebbe reggere per sette stagioni, è una sorta di collettivo cangiante che risponde a più mandanti, connessi da fili invisibili sempre messi in discussione. E così via, fino alla trovata finale, oggettivamente originale. (Non faccio logicamente spoiler, ma si tratta di un dettaglio che permette di vedere tutta la storia attraverso una chiave di lettura duplice, che si concentra su alcune inquadrature e scene “non troppo o non del tutto comprensibili”, che risolvono il puzzle con oggettiva coerenza.)

Perché parlo di questa serie? Perché mi interessa così tanto uno psicodramma in fondo adolescenziale fatto di reginette della scuola e segreti del paesino della periferia statunitense? La ragione credo sia esprimibile in questa perifrasi.

Mi rendo invece conto di quanto sia difficile, per gli sceneggiatori, reggere lo schema di storie sempre nuove. Si preferisce dunque creare un mondo e inventarsi non già delle narrazioni autoconclusive, ma delle “situazioni” che permettono di agire con quello che si ha a disposizione. In altre parole, narrazioni che per effetto di continue complicazioni e stratificazioni diventano potenzialmente infinite.

Nel caso di Pretty Little Liars la cosa è stata condotta con maestria. Nel caso del ben più antico Twin Peaks, serie cult di cui ho parlato spesso, i meccanismi sono come sappiamo abbondantemente sfuggiti di mano. Ma la storia è sempre la stessa. Parliamo di narrazioni commerciali, che sfruttano situazioni e fantasie per tenere semplicemente il pubblico incollato allo schermo.

Mi interessa parlarne, evidenziando appunto la differenza tra serialità pura e serialità puramente temporale, perché nel passaggio dall’una all’altra si consuma il conflitto tra mercato e arte, artificio e sostanza, letteratura bassa e alta. Questa conflittualità può essere efficacemente espressa in forma di quesito: Tra l’ispirazione artistica che sfrutta il mercato per diventare fruibile da parte di un vasto pubblico e l’istanza puramente mercantilistica che si fregia di contenuti artistici o intellettuali, cosa prevale?

Lo dico perché c’è stato un tempo in cui i film potevano essere contemporaneamente espressione della cultura popolare e perle della satira di costume, mescolando l’alto e il basso in un tutto che poteva permettersi l’esistenza nel mercato. Negli anni Cinquanta e Sessanta abbiamo in fondo sperimentato questo anche in Italia, no? Prodotti che potevano cioè permettersi di essere storia prima che meccanismo fine a sé stesso.

Lo stalker coi superpoteri ha una natura artistica e intellettuale? Non credo proprio. Funziona, certo. Ma non è l’espediente tramite il quale l’intelletto si porge al pubblico. All’opposto, è l’espediente punto e basta. Piace per passare il tempo, intrattiene. Assume la forma di un tormentone che rilancia sé stesso, sorta di inno alla riconoscibilità.

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