Solo per Me (poem)

Solo per Me
di Filippo Albertin

Bradbury insiste con la poesia.
Io insisto nell'approfondire i testi di oscure band
che sembrano avere in USA cinquant'anni di carriera
(mi riferisco agli Sparks,
e alla loro Sherlock Hokmes, che trovo stupenda
e che ho pure tradotto).
Bradbury scriveva a macchina
nei sotterranei delle biblioteche,
a 10 centesimi di dollaro per ogni mezz'ora.
Io mi sono deciso di scrivere
ai fosfori verdi,
perché mi ricorda l'infanzia.
Merlino mi salta sulla spalla
per raggiungere miagolando il letto
con un balzo ulteriore,
uno dei tanti della sua collezione.
Così come lui colleziona salti e capriole
io colleziono impressioni, tentativi di memorie,
ovvero prove di distillazione di un certo liquore
che possa essermi utile dopo decenni di oblìo.
Leggo Bradbury, mi immergo in quel poco di illuminante
(e vi assicuro che è già tanto e forse troppo)
che posso trarre dalla sua esistenza di scrittore.
Ascolto una vecchia canzone degli Sparks
che esattamente come per Twin Peaks
all'epoca non avevo mai ascoltato,
e già questa mi sembra antica,
come la poesia che ora scrivo solo per me.

Vicenza, 24 marzo 2024

Tre Cover di Sherlock Holmes (Sparks)

La canzone la adoro. Letteralmente.

Proprio per questo, e proprio per non ascoltarla mille volte cantata sempre in versione originale, ho deciso di cercare tre cover. Gli statunitensi ci sanno fare su queste cose. Sono appassionati. Ci mettono del loro.

Per non parlare di questa deliziosa ragazza…

L’Arte nel Regno di Eris (un prologo)

La mia opinione in materia è facilmente sintetizzabile in una domanda: Che arte può esistere in un mondo in cui non esiste “spaziotempo” per l’arte stessa? Mi spiego meglio… Il tutto si può comprendere identificando le due fenomenologie parallele in conflitto che caratterizzano il problema.

La prima è la sempre più risicata disponibilità di un luogo in cui l’arte possa avere una funzione. Ricordiamo a grandi linee ciò che disse Italo Calvino sui classici. Un classico — cito a memoria e logicamente sintetizzo, ma il succo è questo — altro non è che un’opera d’arte che non finisce mai di dire quello che ha da dire; ossia, un’opera che ha senso leggere e rileggere per un tempo indefinito. Ebbene, esiste oggi un’opera contemporanea che possa godere di un orizzonte temporale di questo genere?

Lo vediamo nel web: tutto è rapido, ovvero istantaneo, autoconclusivo, basato su linguaggi memetici, giudicato unicamente sull’effetto immediato, sulle reazioni che suscita al momento, indipendentemente dalla profondità o dalla funzione nel tempo a venire. Può esistere arte in grado di assurgere a “classico” in questo contesto caotico? La risposta, secondo me, è negativa, nel senso che anche ciò che affiora dovrà in qualche modalità perversa obbedire alla logica del contesto nel quale è affiorato.

Neppure i grandi autori, ormai, sfornano opere destinate a diventare dei classici, o comunque prodotti con una funzione ulteriore alla vendita di una copertina con un nome sopra. L’intero mercato dell’arte è diventato il colossale scenario di una concorrenza dell’usa e getta.

La seconda riguarda, paradossalmente, il sempre più elevato numero di “aspiranti artisti” che acquistano corsi e corsetti per fingere a sé stessi di avere un qualche talento da vendere. Un talento che però rimane confinato al mercato di cui sopra, fatto al più di compitini per casa che somigliano tanto all’output di catene di montaggio che, guarda caso, si chiamano proprio talent show.

In definitiva, ci sono troppi autori in uno spazio sempre meno frequentato da fruitori, e la risultante può essere solo vincolata alla legge dei grandissimi numeri in aree del pianeta come l’Asia o gli Stati Uniti.

Ecco perché secondo me deve per forza sorgere una nuova forma d’arte, costruita in modo tale da essere “sensatamente fruibile” nel mondo della discordia e del caos, ovvero — per usare una metafora classica abbondantemente ripresa dalle narrative discordiane — nel regno di Eris.

Maratona Twin Peaks “Il Ritorno” Parte 2

Ebbene sì. Siamo arrivati — io e mia moglie — a vedere anche tutta la terza fantomatica terza serie (il ritorno, venticinque anni dopo, o come volete chiamarla) di Twin Peaks, ivi compresa la diciottesima puntata che si chiude con una molto stressante battuta: “In che anno siamo?” (Urla del tutto ingiustificate della sosia — o non so cosa — di Laura Palmer versione stagionata, e titoli di coda.)

Quest’ultima fatica è l’ennesima di una lunga maratona che ho avuto modo di snocciolare ai miei lettori punto per punto.

Ora, non abbiamo ancora visto il film “prequel” del 1992, ok, e molti di voi diranno che no, che è una lacuna imperdonabile, che bisogna vederlo a tutti i costi per capirci qualcosa, e via discorrendo. Ma io mi chiedo: cosa mai potrei vedere in un film, peraltro riferito a fatti cronologicamente precedenti a quelli narrati nei trenta episodi della serie classica, per capire quello che Lynch ha voluto dire in questi diciotto episodi uno più melmoso e faticoso dell’altro?

Diciamocela tutta. Attori magnifici, qualche momento veramente emozionante, citazioni e auto-citazioni a non finire (molte delle quali divertenti), camei, simbolismi, e chi più ne ha più ne metta… Ma alla fine della giostra (o del giorno, per citare una canzone piantata lì per farci digerire cinque minuti di inutile amplesso) cosa mi resta di questa mitologia televisiva durata ventisette anni?

In termini di cronologia mi sono già espresso, e posso sintetizzare l’idea in poche battute. Twin Peaks nella sua versione storica altro non è che un grande successo in forma di “soap opera tinta di giallo dai toni oscuri e surreali”, dove Lynch ha pigiato l’acceleratore fino a trasformare l’intero progetto, a circa metà della seconda stagione, in un suo giocattolo comunicativo dove sperimentare gli enigmi più disparati in tema di metafore esoteriche, paradossi temporali, simbologie freudiane, possessioni demoniache, abbozzi di teorie cosmologiche sullo spaziotempo, e chi più ne ha più ne metta. La terza stagione altro non è che una colossale fan-fiction che riprende tutto questo materiale per farlo lievitare a livello parossistico, fino a un finale che ovviamente non conclude un bel nulla, ma anzi pontifica ulteriormente sulla superiorità del regista rispetto a noi comuni plebei incapaci di capire.

Ora, intendiamoci. La mia polemica non vuole assolutamente scalfire la grandezza di questo importantissimo cineasta, autore di indiscussi capolavori e caratterizzato da uno stile che, piaccia o non piaccia, ha fatto la storia del linguaggio visivo. Ma il carrozzone quasi trentennale di Twin Peaks, diciamocelo chiaramente, visto tutto in una volta appare come una grandiosa e direi anche faticosa arrampicata sugli specchi per mimare a tutti i costi la genialità onnivora di un prodotto che, in realtà, è solo una cosa: un’occasione mancata.

Le ellissi temporali, i silenzi, le assurdità disseminate ovunque, sarebbero state perfette, se solo il regista avesse dato prova concreta di sapere dove andare a parare. I viaggi nel tempo diluiti fino allo sfinimento, quelle fastidiosissime immagini in sovrapposizione — che sarebbero andate bene in un buon pezzo di Peter Greenaway, magari un documentario da Biennale — mescolate a stop-motion che pure negli anni Sessanta avrebbero giudicato fatta malamente, per non parlare dei tanti, troppi inserti astratti, che non giudico insostenibili in quanto incomprensibili, ma insostenibili perché lesivi di una qualsivoglia razionalità ritmica della narrazione, tutte, ma proprio tutte queste cose le avrei tranquillamente accettate. Ma non così. Non lungo una quindicina di ore condotte senza un minimo di solidità del costrutto “a monte” di ogni movimento e scelta registica.

Certo, mi rendo di quanto tutto il progetto Twin Peaks scaturisca in fondo da un dirottamento folle, da un compito per casa praticamente impossibile: correggimi un mystery classico “a tinte forti” per farlo diventare un trattato di tuttologia esoterica, tenendo presente che le puntate già andate in onda non si possono modificare. Però è Lynch che ha preso questa strada. Lui e solo lui ha voluto forzare la mano della produzione per giungere a questi voli pindarici.

Operazione di successo? Ok. Anche Sanremo — lungi da me il volerla associare a Lynch — ha successo, eppure a me non piace. Tanto più che l’esoterismo spiegato alle masse tramite entità demoniache frutto di errori compiuti sul set, o attraverso effetti sonori fastidiosi, o improbabili band riprese a fine puntata, non credo abbia prodotto chissà che illuminazioni mistiche negli spettatori.

Qua e là, di trovate carine, ce ne sono indubbiamente: il tema del doppio cattivo, i fratelli gangster che alla fine si rivelano di buon cuore (a mio avviso, neppure poi tanto, ma concediamo a Cooper questa licenza poetica), qualche scazzottata dai tratti abbondantemente soprannaturali, e via discorrendo. Ma il problema è un altro, e qui giungo veramente all’ultima parola sul progetto.

Twin Peaks è quello che è di solito una soap opera, ovvero un campo espressivo televisivo profondamente seriale dove il regista, giorno dopo giorno, si chiede: “Che combiniamo oggi con gli attori? A che punto siamo? Cosa possiamo inventarci?” Purtroppo, però, la forma operativa di Twin Peaks non poteva assolutamente andare di pari passo con l’obiettivo sostanziale dichiarato o fatti intendere, ossia la volontà tutta autoriale di illustrare una metafisica prepotentemente soprannaturale che — per definizione — avrebbe dovuto essere non chiara, ma chiarissima “a monte” (perdonate l’implicita battuta che allude solo per caso alle “vette gemelle”) negli intenti del regista. Cosa che non è mai stata; o, se lo è stata, non ha mai avuto modo di dare eloquente prova di sé.

Insomma, a me pare che la troppa carne al fuoco abbia “camminato con Lynch” per troppe puntate. Tanto che ora è veramente giunto il momento di mettere la parola fine, passando ad altro e confidando in progetti più unitari e comprensibili.

La Stilografica e l’Oblio

Prenderò il tema di questo articolo un tantino alla lontana, partendo da un video che mi ha fatto molto riflettere. In sé e per sé, nel video si parla di un argomento molto specifico: le penne stilografiche. A parlarne è un grande esperto del settore, Stephen Brown, youtuber da tempo riconosciuto come autore di recensioni che sono diventate un vero e proprio punto di riferimento per gli appassionati di questo sistema di scrittura.

L’argomento del video, però, non ha a che fare con uno specifico modello di penna da descrivere, o con qualsiasi fattispecie possa essere confinata nell’angusto novero della passione verso la scrittura con pennini e inchiostri liquidi. Si parla infatti di giovanissime generazioni di fronte al puro e semplice strumento stilografico, inteso come oggetto e nulla più.

Il nostro Stephen Brown, che è anche docente (credo di psicologia), e dunque ha a che fare con studenti nati all’incirca nei primissimi anni Duemila, a un certo punto si accorge di una fattispecie che lo colpisce particolarmente. Un suo allievo, prendendo in mano una stilografica (evidentemente offerta più o meno per caso dal suo insegnante, magari durante una pausa), inizia a osservarla da tutti i lati, e, provando a usarla per scriverci qualcosa, non si sa se spontaneamente o per un invito da parte dello stesso Brown, la pone sul foglio in una posizione totalmente contraria a quella corretta.

Una banalità? Certo. Ma una banalità che colpisce l’attenzione del nostro youtuber…

Ora, non stiamo dicendo che l’allievo in questione abbia iniziato a scrivere con questa penna in modo goffo, oppure che — come assolutamente legittimo — non abbia mai provato a scrivere con una stilografica, o ancora che la scrittura con inchiostro liquido e pennino non sia fatta per lui, come per tanti altri. Stiamo invece parlando di un giovane di circa una ventina d’anni, quindi non certo un bambino, che una penna stilografica non l’ha proprio mai vista in tutta la sua vita!

Stilografiche a parte, questa considerazione ha prodotto in me il classico cortocircuito, in quanto ho iniziato a collegarla a numerose fattispecie generazionali che io stesso noto, e che io stesso posso ricostruire anche solo mentalmente facendo uno più uno, giungendo a conclusioni che a mio avviso dovrebbero farci riflettere.

Così come un ventenne oggi può non sapere minimamente cosa sia una stilografica, per il semplice fatto di aver vissuto in un sistema che non l’ha mai posto neppure per sbaglio davanti a un oggetto del genere, nello stesso modo questo giovane — occorre ribadirlo, parliamo di un uomo, non un bambino — potrebbe non aver mai visto un film di Kubrick, o di Stanlio e Ollio, o del classico Hitchcock anni Cinquanta, solo per citare alcune delle centinaia di proposte cinematografiche che da ventenne, ossia una scarsa trentina d’anni fa, io avevo già da tempo abbondantemente visionato più volte attraverso il servizio pubblico.

Attenzione, io non sto parlando di opere “alte” da preferire esclusivamente ad altre “basse”, esattamente come non sto parlando di una scrittura “nobile” che possa essere imposta come standard rispetto a quella con una penna a sfera, e ci mancherebbe. Il problema è più che mai un altro. Io, come sapete, sono un musicista uscito dal Conservatorio, eppure vi posso assicurare che durante tutta la mia infanzia e prima giovinezza ho ascoltato e amato veramente di tutto, dal rock a Chopin, dal rap a Brian Eno, da Aznavour a Beethoven, passando per Luciano Berio e David Byrne, De André, i Duran Duran, Neneh Cherry e John Zorn, fino alle sigle dei cartoni animati giapponesi, e anche in questo caso la lista potrebbe continuare a lungo. Il fatto è che queste cose le ho ascoltate in quanto mi è stato concesso di ascoltarle.

Insomma, ignorare completamente l’esistenza di una scrittura stilografica storicizzata, e magari preceduta da un’altra a base di inchiostro di china e penna d’oca, oppure non sapere minimamente dell’esistenza di un cinema mystery anni Trenta, o non aver mai visto, accanto alla trilogia di Back to the Future, anche Fright Night o Il Fantasma del Palcoscenico, solo per restare nella cinematografia e non addentrarmi nello sconfinato campo dell’editoria letteraria, io credo sia qualcosa di altamente lesivo dell’individuo e della sua capacità di vivere il suo presente in modo critico, consapevole e autonomo a livello intellettuale, estetico, morale.

La nostra sembra configurarsi sempre più come una civiltà dell’oblio comandato. Coltiviamo competenze fertili in uno scenario contestuale sempre più sterile. Abbiamo decine e decine di licei e non riusciamo a creare le premesse di un insegnamento alla vita, prima ancora che al mero lavoro. Formiamo automi catatonici, non persone. I grandi festival sono diventati talent show, la discografia segue le operazioni a tavolino condotte in vitro in format televisivi e reality. Tutto ciò che viene additato dal mainstream come “qualità” altro non è che un compitino per casa svolto diligentemente sulla base di dettami stabiliti non si sa bene da chi, forse da un’intelligenza artificiale in malafede.

Insomma, che ne sarà delle stilografiche? Verranno dimenticate? Non lo so. Sta di fatto che alle stilografiche possiamo anche rinunciare. Ma a cosa rinunceremo poi?