Uno Stile d’Inverno

Solitamente non sono un grande fanatico delle penne stilografiche bianche. Non so, ma in generale il colore bianco mi sembra poco adatto a una penna, tanto meno a una stilografica.

Tuttavia c’è, nella mia collezione di stilografiche quasi tutte nere, o trasparenti, o colorate, una penna totalmente bianca che evidentemente mi piace, e che peraltro mi capita di usare più e più volte. Si tratta di una Lamy Safari, storico modello nato esattamente nel 1980 per la nota casa tedesca, quasi interamente in plastica.

Personalmente, ritengo che questo specifico design “suoni meglio” in configurazioni colorate, pop, in linea cioè con l’atmosfera del tempo nel quale è stato creato. Ecco dunque che le mie preferenze specifiche vanno in questo caso a penne gialle, o arancioni, o più recentemente in colori particolari, con un carattere specifico: tinta petrolio, tinta crema, etc…

Ma ripeto: questa bianca, così neutra, così apparentemente fredda, a me piace, in quanto si adatta perfettamente a molti supporti e a molti colori dei medesimi; basti pensare al nero e all’arancione carico di alcuni quaderni che uso, come i Rhodia, per me un vero e proprio standard. (A proposito. Recentemente è stata introdotta la gamma “ice”, appunto completamente bianca. A maggior ragione…)

La penna ha un design chiaramente industriale. Eppure mi comunica un senso di “estetica invernale” che volevo in qualche modo completare con un inchiostro dedicato, in una di quelle cosiddette combo che piacciono tanto agli statunitensi.

Ebbene, l’inchiostro l’ho individuato si chiama Salix, ed è prodotto dall’altrettanto germanica Rohrer & Klingner. Trovate in questo articolo una recensione.

In generale non sono un amante del blu come colore di scrittura, ma qui siamo di fronte a un blu particolare, strutturato, abbastanza scuro, che una volta secco, grazie alle proprietà ferrogalliche dell’inchiostro, diventa quasi grigio antracite.

Mi piace.

Singolari Avventurieri Non Ordinari

I primi blogger della (chiamiamola) “storia del Web” erano essenzialmente degli avventurieri singoli e singolari della rete che avevano solo un obiettivo: condividere esperienze a distanza, costruendo relazioni attraverso lo strumento ipertestuale. Strumento che, giova ricordarlo, era una sostanziale novità, per giunta confinata al contesto degli addetti ai lavori.

Il Web delle origini era un mezzo “straordinario” nel senso specifico di non ordinario. Di conseguenza, le relazioni che si intendevano ricercare ne riproducevano la medesima non ordinarietà.

Mi pare evidente quanto oggi come oggi la sostanziale ordinarietà del Web sottenda un bacino d’utenza così vasto da risultare altrettanto ordinario, nel senso di banale, chiassoso, sovraffollato, caotico, spesso greve, commerciale, gretto, solo capace di porgere l’ennesimo invito all’azione pecuniaria per acquistare fantomatici corsi o servizi in grado di trasformarci in multimiliardari.

Quanto al sistema culturale dei cosiddetti influencer, stendo un pietoso velo.

Eppure a me piacerebbe tornare, in qualche modo, a quel tipo di blogging! Mi chiedo: Sarebbe possibile? Se sì, in che senso? In che modo? Sulla base di quale strategia?

Io credo serva una ridefinizione del punto di vista. Dobbiamo cioè evitare l’idea che il Web sia una macchina per raggiungere il “pubblico indifferenziato” di ogni ordine, grado e latitudine. Ossia: oggi come oggi è evidente che la rete fornisce strumenti di marketing, ma il vero blogging (inteso ovviamente come appendice del tutto privata, completamente slegata da precis obiettivi commerciali) non può essere, secondo me, uno strumento di basso marketing relazionale.

Nel mio blog, io non vendo me stesso, ma sono me stesso. Lo sono in una prospettiva potenzialmente pubblica, ma non certo universale. Più precisamente, comunico agli altri esattamente come vorrei si comunicasse a me.

In questo, riproduco quell’antico atteggiamento dei vecchi blogger, pionieri di questa forma di scrittura.

Usi Creativi delle Storie (in Signal)

Nel mondo degli instant messenger, dopo WhatsApp e Telegram, il primo nome che poteva venirmi in mente è certamente Signal, la cui diffusione è purtroppo inversamente proporzionale al grande valore in tema di sicurezza e privacy.

A distanza di qualche tempo l’ho ripreso in mano, e ho visto che hanno inserito anche le storie. Quelle stesse, frivole ed effimere storie che dallo storico Snapchat che le ha coniate hanno conquistato tutti: Facebook, Instagram, lo stesso WhatsApp, e ora appunto Signal.

Da qui una domanda. Visto che Signal è un’applicazione (passatemi il termine) seria, è possibile usare in modo serio anche lo “strumento” delle storie?

Innanzitutto, cosa sono le storie? Banalmente, sono contenuti multimediali costituiti da vari remix di testo, immagini, suoni e video, che compaiono nelle nostre bacheche, e risultano a disposizione del pubblico col quale abbiamo deciso di condividerle per sole 24 ore. Questo specifico aspetto costituisce la loro caratteristica precipua: sono messaggi che definitiva si autodistruggono, come le comunicazioni segrete, ma in un tempo abbastanza congruo alla loro fruizione da parte di un pubblico potenzialmente vasto.

Ma a cosa servono le storie?

Qui le cose si fanno leggermente più complicate. Le storie, a rigore, dovrebbero essere dei contenuti in linea con la natura fortemente transeunte del web, specie rappresentato dal microblogging in genere. Non è infatti difficile convincersi del fatto che un banale post di twitter, a differenza di quanto accade nei blog classici e a maggior ragione nei siti statici, ben difficilmente sarà rivisto e ripreso a distanza di tempo.

Quindi, in sostanza, le storie — lasciando da parte la possibilità manuale di scaricarle e conservarle — sono contenuti che pretendono dal pubblico un’attenzione forte, ma momentanea. (E io aggiungo: Sarà poi il pubblico stesso a ricordare questo o quello a seconda dell’importanza…)

Sulla scorta di questa idea di fondo, a cosa possono servire le storie, nello specifico quelle (veramente ben fatte) coniabili con Signal?

Imponendolo come standard per la comunicazione tra colleghi, secondo me le storie possono essere un ottimo strumento di sincronizzazione e condivisione, mediato dalla necessità di dedicare una certa attenzione al team stesso.

Sulla base di questa intuizione di base, le applicazioni possono essere infinite.

New Old Ubuntu!

Lo stile di Ubuntu Unity, nuovo nato “retrospettivo” nella famiglia Ubuntu.

Il nostalgismo ha senso? Ha senso, cioè, porsi esteticamente e funzionalmente la questione della validità o meno dell’evoluzione tecnologica?

Secondo me sì, e là fuori ci sono centinaia di persone che mi daranno ragione, anche dal punto di vista professionale. Tanto per fare qualche esempio, risulta noto a qualsiasi informatico quanto i computer di un tempo, certamente meno dotati a livello di RAM, fossero per molti versi più veloci e reattivi di tanti macchinari attuali, e la maggior parte dei musicisti e tecnici del suono sa benissimo che l’analogico, in musica, tende ad essere migliore del digitale.

In questo periodo sto usando Ubuntu Unity, una versione particolare del noto sistema operativo, che riprende in mano l’abbandonato progetto della famosa barra laterale alternativa a quella di GNOME, che a suo tempo spaccò letteralmente in due l’utenza tra favorevoli e contrari.

Personalmente non mi sono mai schierato. All’epoca l’innovazione in questione non mi parve né particolarmente rivoluzionaria, né fastidiosa, tanto che continuai a utilizzare la versione ammiraglia senza alcun problema.

A tutt’oggi continuo a usare Ubuntu Standard (GNOME), ma mi incuriosiva provare questa versione “revival”, che ho trovato veramente stimolante, soprattutto dal punto di vista estetico.

Provatela anche voi.