Sul Vero Radicalismo

La premessa di rigore a questo breve articolo è che non sono mai stato, né sono, nemico di qualsivoglia proposta radicale avanzata per risolvere questo o quel problema. La mia concretezza non sottende alcuna base reazionaria preconcetta, ma solo la volontà di convergere a soluzioni efficaci, quale che sia la loro ispirazione.

Detto questo, però, mi permetto solo due considerazioni, che a mio avviso sono l’immediato corollario a quanto detto. Le esprimo sotto forma di domanda al cospetto, appunto, di una generica proposta radicale da vagliare e giudicare.

La prima: Siamo sicuri che la tale soluzione sia effettivamente ottenibile come radicale? La seconda: Siamo sicuri che, una volta applicata, ove ovviamente fattibile, la tale soluzione sia effettivamente una soluzione che mantiene il suo radicalismo?

Dico questo perché, banalmente (ed eticamente, e filosoficamente, e intellettualmente) parlando, io credo che qualcosa di radicale debba mantenere la difendibilità di tale aggettivo sia a monte che a valle della sua realizzazione.

In rete gira da tempo una sorta di “meme” che recita circa così: Nomade digitale! Padre senatore e madre notaio.

Ossia, che il “radicalismo” di certe scelte possa essere molto discutibile credo sia evidente anche solo a un breve vaglio del ragionamento e del senso comune. Come mai coloro che “hanno rinunciato a tutto per vivere in una fattoria in Tibet” sono praticamente tutti ex top manager di multinazionali rapaci, o più banalmente figli e figlie di papy-paga? Vogliamo considerarla una vocazione francescana sorta dal nulla e col nulla costruita?

La risposta è ovviamente negativa. Senza la pecunia sonante delle liquidazioni a base di plastica, petrolio e speculazione di borsa, questi sogni dal sapore bio-green non si sarebbero mai realizzati, esattamente come non si sarebbero realizzati in assenza di capitalizzazioni pregresse che solo nel sistema e dal sistema sono state prodotte.

Ora però, facciamo pure un passo avanti, e ammettiamo pure che la soluzione radicale in questione debba essere giudicata non già dal suo pregresso, ma per quella che è.

L’esempio che vorrei portare è questo progetto di (passatemi il termine) “comune di creatori di contenuti” in Texas. Interessante? A prima vista, direi di sì. Ma ripensiamoci un attimo…

Della serie, fuggiamo, andiamo a coltivare le nostre passioni assieme a coinquilini che fanno la stessa cosa, condividiamo energie e vibrazioni a contatto con la natura… Certo, ma per fare cosa? Per isolarsi dal sistema? In che modo? Più nel dettaglio, mi si faccia capire: per chi sono i contenuti che questi vorrebbero creare? Non sono forse per lo stesso sistema che consente ai fruitori, direttamente o indirettamente, di pagarli?

Come detto, non ho nulla contro questi bei ragazzi che tra le sterpaglie dei paesaggi aperti, tipicamente statunitensi, ripercorrono le orme dei vari Thoreau della storia. Faccio però notare che Thoreau, dopo due anni passati a lottare con le formiche, abbandonò la sua casetta di legno di fronte al lago Walden e se ne tornò nel suo tanto detestato consorzio umano cittadino.

Alcuni creatori di contenuti del progetto Cabin, riuniti sullo sfondo del tipico paesaggio texano.

Io ritengo invece che la fuga dal sistema, salvo casi veramente radicali (che di certo non faranno mai notizia, e sono più spesso causati dalla necessità che dalla libera scelta), costituisca sempre una pura astrazione, che nasconde e trascina con sé una miriade di contraddizioni.

In realtà non sei uscito dal sistema. Stai solo ottimizzando i suoi frutti. Ti stai solo emancipando dallo stress che esso produce sulla vita di chi, contrariamente a te, certe cose non se le può permettere. Insomma sei sempre prigioniero, ma in una gabbia di velluto, con televisione satellitare e acqua calda. Tutto qui. Funzioni esattamente come quelle attrici e modelle femministe che fanno i soldi mostrando tette e culi su OnlyFans, per deliziare oscuri e sconosciuti occhi maschili sfruttando lo stesso immaginario patriarcale che vorrebbero, a parole, combattere nei loro profili Instagram. Oppure come quelle mogli o fidanzate del magnate del cemento, che si riempiono la bocca di cultura verde al biologico in piazza. (Ho fatto solo esempi femminili per il solo fatto che quelli maschili sarebbero almeno il doppio, quindi non mi si tacci di maschilismo. Ritengo che le donne, in generale, siano statisticamente molto più intelligenti degli uomini.)

La mia tesi è dunque che ogni “radicalismo di soluzione” debba proporsi come un salto di qualità in termini esclusivamente creativi, prodotti dentro il sistema, in grado di sfruttare a proprio esclusivo vantaggio tanto i difetti incalcolabili quanto i pochissimi pregi del sistema stesso.

Non sei radicale se spendi cinquecentomila dollari per comprare una casa ecosostenibile in Amazzonia. Sei veramente radicale se costruisci la tua indipendenza dentro la peggiore area metropolitana del paese dove vivi. Sei radicale se costruisci il tuo studio dentro un appartamento di sessanta metri quadrati, se crei arte con uno smartphone da buttare, se fai andare il televisore con un accumulatore solare da duecento euro preso da Leroy Merlin. Sei veramente radicale se riesci a vestirti come un ricco direttore di banca pur avendo comprato i vestiti al mercatino dell’usato. Non sei radicale se aderisci all’ennesimo progetto di emancipazione dai confini nazionali, per la creazione di un grande stato a base cryptovalutaria dove però la lingua è e resta l’inglese. Sei radicale se riesci a emanciparti dalla politica, a capire dove stanno i piloti automatici, a vedere che quel governo di destra neonazista in realtà farà le stesse cose di chi si professa di sinistra.

Il radicalismo vero riproduce il meccanismo del meticciamento. Basta vedere gli animali: quelli di razza pura tendono ad essere stupidi e ottusi; i bastardi, invece, restano i più reattivi, svegli e intelligenti.

Sul Creare Contenuti

A vario titolo e per varie ragioni, in questo periodo mi sto interessando di creazione di contenuti; ovvero, della (fantomatica) figura del content creator.

Il contenuto e la tecnologia

Per quanto la perifrasi sia effettivamente l’ennesima — diciamocelo chiaramente — mistificazione che usa l’inglese come lasciapassare di un’originalità del tutto presunta, che nasconde certamente cose antiche e banali (dal coworking che è e rimane un banale “affitto di scrivanie” ai vari talk che altro non denotano se non “discorsi in pubblico” che si tengono dall’epoca di Cicerone esattamente nello stesso modo), il mondo attorno alla creazione di contenuti è certamente interessante.

La ragione di questo interesse è sicuramente il rapporto tra mondo fisico e mondo digitale, con uno sguardo molto attento alle tecnologie che oggi permettono di liberarsi più o meno totalmente di ogni figura intermedia tra creatore e fruitore. Parlo essenzialmente della blockchain, ossia di quel costrutto informatico che ha permesso la nascita e l’ascesa delle cryptovalute, e oggi sta alla base della rivoluzione degli NFT, token non fungibili che mimano alla perfezione il comportamento di un’opera d’arte unica e irripetibile che passa di mano in mano — di wallet in wallet — attraverso procedimenti crittografici automatizzati.

Senza tanto perdere tempo nel parlare degli altri creatori di contenuti, parlerò di me. Perché sì, io mi ritengo un creatore di contenuti, nonché un docente — versato in tecniche creative e di visual thinking (ok, questa volta ho usato io un termine inglese, ma solo per necessità di sintesi) — che ha spesso insegnato ad altri ad esserlo. Quindi, vorrei fare il punto su me stesso.

Una sorta di manifesto (valido forse solo per me)

A me capita di fare tante cose. Sono un crypto entusiasta che lavora come consulente freelance Bitcoin e Altcoin, ma adoro i film degli anni Trenta. Disegno in bianco e nero su carta, eppure adoro l’arte digitale e i suoi luminosi cromatismi a schermo. Colleziono e uso penne stilografiche di ogni tipo, ma quasi sempre scrivo a schermo. Amo il synthpop anni Ottanta che veniva veicolato da musicassette fisiche (peraltro tornate di moda), però non potrei fare a meno degli mp3. E via discorrendo.

Non ho mai amato le accozzaglie, né mai le amerò; ma di certo il rapporto tra digitale e analogico mi ha insegnato un dettaglio illuminante. Il vero e grande punto di forza del “mezzo” informatico e telematico è la capacità di veicolare con assoluta efficacia ed efficienza un mix di elementi multimediali eterogenei in una forma univoca e coerente.

L’idea deriva dalla mia lettura di Steal Like ad Artist, di Austin Kleon. Il creativo colleziona cose diverse, apparentemente conflittuali e non miscibili. La sommatoria di tutte queste, però, restituisce l’identità del creativo stesso. Quindi non bisogna tanto preoccuparsi di come verranno assemblati certi materiali. L’importante è collezionare tutto ciò che sembra significativo, scartando il resto.

Quando osservo qualcosa che mi piace, subito dopo averla collezionata (leggi, rubata) inizio subito a chiedermi con quale altra poterla remixare al fine di comunicare quel qualcosa che non posso fare a meno di comunicare.

L’arte, per me, è un remix. Non necessariamente un remix di oggetti posti sullo stesso livello. Può essere anche un remix inedito di stili applicati a un determinato soggetto, o di posizioni filosofiche, o di colori, forme, approcci, cornici, schemi.

Ma attenzione. Il mio metodo — o manifesto — non indica nel remix una sorta di “a prescindere” estetico. Al contrario, io mescolo solo se posso in qualche modo intuire un senso, una particolare efficacia.

Ultimamente, per esempio, sono affascinato da come un normalissimo post di blog — cioè un articolo — possa diventare vera e propria opera d’arte collezionabile attraverso la tecnologia dei non fungible token. Se ci pensiamo, un articolo è esattamente un remix: di immagini, testo, video, musica… Quale forma migliore per veicolare l’idea di arte che ho appena descritto?

Nella mia pagina Cent, propongo spesso opere collezionabili (quasi sempre gratis, a volte a pagamento) in forma, appunto, di articoletti con un titolo, alcune frasi e una o più immagini.

A volte remixo immagini puramente digitali. Altre volte riciclo miei disegni attraverso tecniche di rielaborazione cromatica, riproducendo effetti che altrove mi sono piaciuti.

Dal punto di vista strettamente estetico, direi che il risultato finale, nella sua varietà “riconducibile a me”, mi soddisfa. Nonostante questa soddisfazione, però, io ritengo che il ruolo di un content creator oggi come oggi non possa prescindere da qualcosa di più. Questo qualcosa in più a mio avviso somiglia molto — mi si passi la perifrasi piuttosto pindarica — all’idea di smart contract che sta alla base del funzionamento di determinate transazioni in blockchain. Ossia: ciò che noi oggi possiamo chiamare arte, o più in generale design, sia esso fatto con carta e penna, sia esso elaborato con le più articolate tecniche elettroniche di rendering tridimensionale, non può viaggiare senza un contenuto ulteriore. Questo contenuto secondo me è l’appartenenza a una community, a un pensiero comune, a una condivisione di strumenti e filosofie… Tutte cose che un NFT può veicolare in modo automatico tramite il suo meccanismo di funzionamento.

Un NFT collezionato è frutto di una transazione. Può essere una transazione in denaro (digitale), oppure un regalo fatto a fronte di un’azione. In ogni caso, lo specifico NFT posseduto dal singolo è di volta in volta biglietto, tessera annuale, amuleto, lasciapassare, chiave di sblocco funzioni all’interno di un sito, prova di fedeltà, status symbol, oggetto da apporre come avatar, e mille altre cose.

Conclusioni

L’arte digitale deve diventare strumento di comunicazione operativa, spicciola, terra terra. Abbiamo bisogno di comunità dove l’estetica possa sfumare nella tokenizzazione del tutto.

Abbiamo bisogno di diffondere una cultura di creatività capillare, a disposizione di chiunque.

Il content creator, dunque, deve diventare protagonista in un contesto completamente opposto a quello, presunto e presuntuoso, del mero testimonial, che al contrario non produce nulla di originale, ma si adegua alla dittatura dello sponsor di turno, o dell’agente, o di qualsiasi altro elemento di mediazione non alla pari.

Un vero e proprio manifesto, dunque, il mio. Che propongo a voi esattamente così, senza alcun filtro o mistificazione.

Moto Perpetuo

Se dovessi descrivere quella che ritengo la caratteristica determinante dell’essere creativi (in generale, non solo per gli ambiti artistici o estetici), non avrei alcun dubbio: la continuità. Facciamo un esempio concreto. A parte fattispecie specifiche, essere “regolari” nello volgere una certa attività fisica non significa necessariamente andare in palestra ogni giorno. Già riuscire a farlo per una buona mezz’ora un giorno sì e uno no è un ottimo traguardo.

Austin Kleon ha molto creativamente enunciato questa regola in una sorta di tecnica chiamata chain smoking, ossia, letteralmente, la prassi di accendersi una sigaretta utilizzando il mozzicone di quella fumata prima. Un “metodo” evidentemente usato da parecchi artisti.

Questa idea di “essere sempre al lavoro su qualcosa” può sembrare utopistica, specie per chi non è creativo di mestiere, e dunque si guadagna la pagnotta facendo ben altro. In realtà vale il contrario: proprio chi fa dell’altro deve avere una tecnica agevole per mantenersi creativo anche in periodi di siccità.

L’idea di base è rappresentata, appunto, dalla continuità, dal tenersi sempre dentro un progetto, indipendentemente dalla fase nella quale si trova. Come illustra questo mio diagramma, un progetto non è certamente fatto di soli momenti di estasi creativa e ispirazione all’ennesima potenza. Anzi, al contrario, spesso e volentieri i progetti creativi sono fatti di perseveranza noiosa, mestiere, artigianato e tecnica.

Alcuni consigli concreti per coltivare il proprio moto perpetuo creativo:

  1. Distinguere nettamente il “quaderno delle ispirazioni crude” dalla realizzazione finale.
  2. Addestrarsi a tenere la penna in movimento senza censurare nulla.
  3. Annotare in un solo luogo le fonti di ispirazione, o in generale ciò che riteniamo avere a che fare con la nostra potenziale creatività.
  4. Considerare che non esiste solo la scrittura creativa, ma anche la lettura creativa e la fruizione creativa di qualsiasi cosa.
  5. Utilizza strumenti comodi. La stilografica è affascinante, ma potrebbe essere adatta solo a certi tipi di scrittura, e non ad annotare rapidamente idee e concetti.
  6. Ricordati che chi non legge non può scrivere, e chi non contempla opere d’arte non sarà mai un artista.
  7. Concentrati su cose esigue e alla portata.
  8. Permetti a te stesso di rubare da altri artisti.

Da notare che questi consigli sono gli stessi che io seguo per me stesso.

A Ciascuno la Sua Taos

Ho conosciuto il New Mexico attraverso la mediazione di Natalie Goldberg, che ne parla diffusamente credo in tutti i suoi libri, compreso il primo e più famoso: quello tradotto in Italia col titolo Scrivere Zen. Nello specifico, la Goldberg si sofferma sulla cittadina di Taos, che da quello che descrive (nonché dalle numerose immagini che sono riuscito a trovare) sembra essere il luogo perfetto per scrivere: silenziosi bistrot che servono gratuitamente il caffè lungo assieme alla consumazione, atmosfera rurale, vegetazione selvaggia, ampi spazi vuoti e accoglienti, atmosfera da realismo magico latinoamericano, e via discorrendo.

Ebbene, io credo che Taos sia una sorta di archetipo. Ciascuno di noi, rovistando tra le memorie, può trovare una propria Taos radicata nello spaziotempo del passato, quasi sempre infantile o adolescenziale.

brown house under blue sky

Diciamocelo chiaramente. Le nostre città italiane, anche solo per una loro conformazione strettamente topologica, oltre che culturale, non sono certamente accoglienti per chi vuole starsene da solo a riflettere e scrivere. Appaiono chiassose, cattive, sovrappopolate, piene di negozi inutili e dettagli deprimenti. Noi non abbiamo i grandi spazi degli USA, i chilometri e chilometri da sobbarcarsi per giungere a una città effettivamente lontana dalle grandi metropoli. Da noi la provincia “dormitorio” è invece vicina al centro, e con esso partecipa alla medesima corsa conflittuale e concorrenziale.

In questo senso, la Taos di Natalie Goldberg diventa appunto una sorta di utopia, o comunque di simbolo, di ideale da ritagliare anche nella quotidianità attraverso gesti, prassi, volontà, azioni caparbie per rivendicare quello che io amo considerare il diritto alla creatività.

Certo, tutti noi “adulti e vaccinati” sappiamo che ormai i diritti si possono solo comprare con moneta sonante, esattamente come potrebbe accadere, letteralmente, per un viaggio, ossia per una fuga altrove. Tuttavia la stessa creatività può fare molto.

La creatività necessita di creatività! Essere creativi significa necessariamente elaborare (creativamente) delle strategie per organizzarsi. Credo che nei prossimi post dedicherò energie per descrivere le mie strategie per essere creativo in un mondo che odia la creatività.