La Vetta e il suo Doppio

Per un’analisi della vera trama, necessariamente ancora da immaginare, che si sarebbe dovuta sviluppare attorno alla storia di Twin Peaks

L’articolo originale è anche disponibile qui.

La tesi che voglio suffragare in questa mia disamina è legata a un fatto oggettivo in quanto platealmente ammesso dallo stesso David Lynch. La svolta prepotentemente soprannaturale avvenuta attorno alla metà della seconda stagione di questa acclamata serie televisiva altro non fu che una ripicca del regista verso le decisioni della produzione, che imponeva di rivelare immediatamente il colpevole. Questa decisione indusse il regista a inventarsi di sana pianta la figura di BOB, entità soprannaturale impersonata peraltro non già da un attore professionista, ma da un banalissimo inserviente a disposizione, a riprova della natura più che rocambolesca della faccenda, che avrebbe in qualche modo giustificato l’azione delittuosa di un padre la cui libidinosa e ignobile violenza era solo dettata da una possessione.

Ma a volte le soluzioni appaiono ben peggiori dei problemi che dovrebbero risolvere, ed esattamente questo è il caso di Twin Peaks, che dalla svolta in poi diventa una sorta di claudicante giocattolo nelle mani di un Lynch sempre più in difficoltà nel reggere l’intero impianto della trama. Con aporie che non si contano: personaggi che animano storielle parallele del tutto autoreferenziali, oppure che appaiono e scompaiono senza nulla portare allo svolgimento della storia; isterie collettive che alludono a forze misteriose la cui logica di funzionamento, per quanto soprannaturale, rimane del tutto oscura; e infine un cambiamento radicale di stile, che dal sublime contrasto tra natura incontaminata e kitsch da soap opera passa a una morbosità grottesca a base di tende rosse, geometrie vagamente massoniche, con nani e giganti sparsi qua e là.

L’idea originaria era evidentemente del tutto diversa, e numerosi sono gli indizi di tale radicale diversità.

Cosa sono le “Vette Gemelle” che danno appunto il nome alla cittadina? Sono due montagne, che chiaramente rappresentano la metafora del dualismo: da un lato la montagna come simbolo di solidità, robustezza, natura incontaminata, riparo, protezione; dall’altro lato la montagna che incombe, che oscura, che occulta e nasconde alla vista, ovvero la montagna dei boschi, dei rituali, della violenza atavica.

Il progetto originario della serie si imperniava appunto su questo: rappresentare, attraverso l’elemento catalizzatore di una bellissima ragazza vittima di un brutale killer, la doppia faccia di una cittadina, ovvero il suo versante oscuro e inconfessabile progressivamente messo in luce dall’indagine investigativa di un personaggio esterno, l’agente speciale Dale Cooper. Laura Palmer doveva quindi da subito essere, e in effetti per molte puntate lo è stata incondizionatamente, lo scandaglio non presente in scena, l’entità aleggiante, il mistero di una doppia vita che la parte luminosa e amichevole della città non vuole ammettere. Ecco dunque la chiarissima dicotomia, che guarda caso appare con eloquenza sconcertante anche solo nei celeberrimi titoli di testa: un uccellino colto nella natura incontaminata di un bosco, a illustrare la pace atavica dello stato pimordiale, e subito dopo le immagini della segheria della città, segno chiarissimo dello sfruttamento, del lucro, del potere, e poi ancora il contrasto tra l’albergo e l’immensa cascata… Siamo di fronte a una tesi molto lineare: dietro questa facciata idilliaca si celano segreti, e questi segreti sono riassunti nell’ambigua esistenza di una giovane donna chiamata Laura Palmer.

Se è vero che il tema del doppio è stato successivamente ripreso e trattato da Lynch specialmente nella fantomatica terza serie del 2017, è anche vero che tale tema risultava ormai definitivamente contaminato dalla svolta soprannaturale risalente all’avvento del catastrofico demone BOB, e dei voli pindarici ad esso conseguenti: l’inutile e fastidiosa loggia nera, i gufi, la frase “fuoco cammina con me” (che chiaramente alludeva alla passionalità e al desiderio che la Palmer suscitava in giovani e adulti del luogo, e non certo a chissà che metafora occulta), i simboli ritrovati dentro una grotta e mai spiegati, l’operazione Rosa Blu, i nani e i giganti, e via discorrendo lungo le inenarrabili invenzioni autoreferenziali che ho avuto modo di snocciolare in vari articoli. Un vero peccato, perché la tematica del doppio era già in nuce nella fibra stessa della narrazione dalle sue prime battute.

Gli ingredienti c’erano tutti: il cattivo gusto dell’albergo e di certe signore altolocate, in contrasto con la gentilezza e schiettezza del luogo; gli affari loschi degli adulti, a base di droga e prostituzione, in opposizione con l’amicizia sincera e l’amore incondizionato delle giovani generazioni; la signorilità di Dale Cooper e l’amicizia con lo sceriffo locale da un lato, la brutalità dei trafficanti e la meschinità degli intrighi imprenditoriali dall’altro. In mezzo, come spartiacque, Laura Palmer e i suoi insondabili segreti.

Il vero problema di questa narrazione è stato evidentemente la sua natura non propriamente seriale, ossia, parlando in termini di contraddizione tra forma e contenuto, l’impossibilità di continuare una trama che fosse solo basata sulle classiche dinamiche di una soap opera, per definizione basata su personaggi, e non su matasse da dipanare. Un mistero, prima o poi, deve risolversi, e dunque l’invito della ABC ad accelerare il processo investigativo non era poi così campato in aria. L’idea di fondere Dallas o Dynasty (non per niente, quest’ultima, proprio a marchio ABC) con una precisa indagine, per quanto affascinante e legata all’enigmatica figura di un’adolescente femme fatale in grado di trascinare tutti nella perdizione della follia, probabilmente avrebbe dovuto basarsi su meccanismi diversi da quelli adottati. Innanzitutto, una serie del genere mai e poi mai si sarebbe potuta concepire come narrazione allungabile ad libitum sulla base di un capriccio, poco importa se del regista o della produzione.

Dunque, la grande domanda resta una sola: Sarebbe possibile ricostruire la narrazione originaria di Twin Peaks, immaginando da cima a fondo lo sviluppo di una sceneggiatura completa ed esaustiva dell’intera vicenda, con una suddivisione in capitoli o episodi che tengano il meglio di quanto fatto e sviluppino gli eventi in altre, diverse direzioni?

Questo interrogativo sorge anche sulla base di alcuni oggettivi punti di forza che, nonostante tutto, hanno fatto di questo fenomeno televisivo un prodotto piuttosto importante e riconosciuto come innovativo. In primis, la capacità di coinvolgere un pubblico tendenzialmente giovane, attraverso elementi che, pur inserendosi in una narrazione spesso destinata a fasce anagrafiche più adulte, premeva molto l’acceleratore su inquietudini, passioni, confusioni e turbamenti tipici dell’adolescenza e degli scenari da college statunitense. Oltre a questo, impossibile tacere l’evidente efficacia di determinati colpi di scena, per quanto spinti oltre il limite del grottesco: si pensi al bizzarro psichiatra con la sua mania per le Hawaii, che cela all’interno di una noce di cocco il noto pendaglio spezzato di Laura Palmer (di certo un MacGuffin hitchcockiano mancato), oppure l’improvvisa entrata in scena di un corpulento uomo d’affari giapponese, che si rivela essere la scomparsa Catherine Martell. Si tratta evidentemente di elementi molto difficili da gestire, che appunto, nel corso della serie sono stati letteralmente gettati alle ortiche con soluzioni sempre più vacue, la cui vena mistica e soprannaturale non basta certamente a neutralizzare l’incontenibile effetto comico: una su tutte, l’eliminazione del personaggio dell’asiatica Josie Packard, che letteralmente scompare assorbita metafisicamente da un comodino!

Insomma, sarebbe interessante raccogliere antologicamente tutto ciò che nella serie classica, intesa chiaramente come setting precedente alla distruttiva introduzione di BOB e di tutto ciò che ne consegue, ha effettivamente funzionato, per capire cosa farne di effettivamente buono nell’economia di una narrazione completa e formalmente ineccepibile.

L’idea della trama mystery a mio avviso è da tenere, così come è da tenere quella certa nota esoterica portata in scena dai metodi deduttivi “allargati” dell’affascinante agente Dale Cooper. Bella ed efficace anche la presenza di industriali e uomini d’affari corrotti, che si alternano tra i denari generati dalla struttura alberghiera del posto (sfruttata pochissimo, se consideriamo quanto essa potesse essere subliminalmente sovrapposta alle atmosfere del ben più noto Overlook Hotel), e dall’azienda che produce legname (pure quella, completamente dimenticata, nonostante le tantissime potenziali connessioni che avrebbe potuto generare). Molto interessanti anche i rapporti tra ragazzi, ora ribelli, ora romantici, ora implicati in sporche faccende di droga per evidente noia esistenziale (perfetto in questo senso il personaggio di Bobby, il cui padre militare era chiaramente stato impostato, nella versione originaria, come emblema del conservatorismo statunitense benpensante, e mai e poi mai si sarebbe tramutato in quella sorta di viaggiatore metafisico poi imposto a suon di contraddizioni dagli assurdi voli pindarici di Lynch). Che dire poi di Audrey Horne? Dalle prime puntate una perfetta figlia di papà, sensuale, capricciosa, gratuitamente crudele, che solo per un’inspiegabile e inattendibile volontà registica viene improvvisamente e senza alcun motivo trasformata in una ragazzina dal cuore d’oro, pentita non si sa per cosa. Al contrario, il suo personaggio sarebbe stato perfetto, assieme a vari altri, per depistare le indagini, visto che è evidente che il colpevole si sarebbe dovuto trovare attraverso un colpo di scena del tutto imprevedibile. Forse tutta la cittadina ha avuto parte al delitto, oppure è stato proprio il più insospettabile. Cooper stesso? Se sì, in che modo? Capite bene che un “classico alla Agatha Christie” non sarebbe stato comunque male come idea di base, sulla quale innestare le intuizioni grottesche e surreali di Lynch. Anzi. Sarebbe stata la via migliore.

Vicenza, 27 marzo 2024

Twin Peaks: l’Ultimo Tassello

Eccomi dunque giunto a colmare l’ultima, ultimissima lacuna che a detta di tutti dovevo colmare per il completamento di quello che ormai posso chiamare l’affare Twin Peaks. Vi ho già abbondantemente parlato delle prime due “storiche” serie, per poi saltare direttamente alla terza, ovvero quella dei venticinque anni dopo. Evidente che mi mancava il fantomatico film del 1992, che a detta dei tutti di cui sopra mi avrebbe fornito le chiavi interpretative per chiudere il cerchio e comprendere tutto.

Ebbene, il film Twin Peaks: Fuoco Cammina con Me non ha fatto altro che confermare in pieno il giudizio generale che ho già dato. Un giudizio sostanzialmente negativo, che torna a interpretare l’intera operazione come una buona intuizione iniziale, trasformata dopo poco — forti del grande successo di pubblico — in una sorta di giocattolo registico nelle mani di un Lynch troppo seriale per essere astratto, e troppo astratto per essere seriale.

La trama è quella di un prequel fatto solo per tentare di spiegare cose che non solo non si spiegavano nella (da poco conclusa) serie storica, ma non erano neppure state prese in considerazione, essendo la storia complessiva e risultante una claudicante improvvisazione su temi di un esoterismo più ridicolo che inquietante.

Giunti a metà film veniamo a sapere:

  • che un altro fatto delittuoso è stato precedentemente consumato;
  • che alcuni agenti FBI sono scomparsi nel nulla;
  • che un agente impersonato da David Bowie è invece dal nulla ricomparso (per fare quella che, a questo punto letteralmente, è proprio una comparsata e niente più);
  • che il padre di Laura Palmer è uno che cambia personalità non si sa bene per cosa (ovvero, si sa, ma il dettaglio non fa né caldo né freddo);
  • che nel retroscena ci sono delle storie di droga (appiccicate con lo sputo sulla pellicola);
  • che Laura Palmer si droga, si concede carnalmente e assorbe su di sè — stile Jack Torrance — tutte le forze esoteriche della zona, impazzendo ogni tanto e poi tornando perfettamente normale senza alcun motivo;
  • che ogni tanto saltano fuori un nano, un’anziana signora, un bambino elegantemente vestito, una maschera, e la lista potrebbe continuare.

Il tutto viene consumato all’insegna di dialoghi brutti, artificiosi e stereotipati, messì lì tra una scena inefficacemente misteriosa e l’altra chiaramente per tentare didascalie di una logica pregressa che il regista è il primo a ignorare completamente. Ma non solo: le scenette “boschive” notturne dove la Palmer, assieme al giovinastro di turno (Bobby in testa), mette in scena tutta sé stessa nell’esplodere istericamente su questo o quel tema rasentano la recitazione da cult horror di serie Z anni Ottanta.

Sembra veramente che la produzione abbia prescritto a Lynch un film “tanto per portare al botteghino i fan di Laura Palmer dei primi episodi poi gettati alle ortiche”, col solo intento di rivelare un mistero fatto di pezzi che non collimano, o che delineano un background incoerente che nessun misticismo potrà mai rendere efficace.

L’intera operazione — parlo ovviamente di quella storicizzata — arriva, con questo film, a deteriorarsi in un faticoso collage di spezzoni che sulla carta dovrebbero funzionare come zuccherini per il pubblico, ma che in realtà si guardano senza alcun interesse: Laura Palmer fa la zoccola e dice una parolaccia, Laura Palmer custodisce segreti e fa una faccetta strana, Laura Palmer musa di non so che cosa, Laura Palmer intermediario dei mondi e viaggiatrice del tempo non si sa bene come, e via discorrendo lungo una sequenza dove l’antecedente non produce nulla per rendere appetibile il conseguente. Effetto finale: il film amatoriale di un liceale che non sa bene che rappresentare, e filma le compagne di classe più carine.

Insomma, se la seconda stagione, una volta presa la piega del “tutta colpa di BOB”, aveva purtroppo già fatto dimenticare gran parte della verve grottesca e torbida che si respirava nella prima, con questo lungometraggio l’oblio verso qualsivoglia buona idea potesse scaturire dalle “Vette Gemelle” appare totale e definitivo.

Più precisamente, in questo film gli spezzoni più lynchiani si alternano, sempre inutili e vacui, a sequenze che danno l’impressione di raccordi chilometrici per giustificare la tale battuta, questo e quel passaggio, oppure anche solo per tentare di distrarre lo spettatore, fino a che — in quella specie di orgia che viene organizzata nel bar malfamato — solo le tette al vento della Palmer sembrano costituire l’unica motivazione plausibile per salvare qualcosa del lungometraggio, con tutta la tristezza che ne consegue.

La domanda, scena dopo scena, sgorga spontanea: ma veramente stiamo parlando dello stesso regista di Cuore Selvaggio e Velluto Blu?

Avete presente il vecchio adagio della buona narrazione? Mostrare, non dire. Ecco, in questo film l’epopea del “dire” si squaderna in tutta la sua prepotente inefficacia. Tutto è detto, tutto è didascalico, nulla viene mostrato, per il semplice fatto che non c’è nulla da mostrare per rendere credibile ciò che solo la parola, imprecisa e vuota, può spiattellare nella sua funzione di pura supplenza. I concetti chiari vengono ripetuti più e più volte, creando nello spettatore un senso di profondo fastidio: della serie ok, non sono imbecille, vai avanti… Quelli oscuri, invece, all’opposto vengono appena abbozzati, tanto che alla fine lo spettatore stesso comincia ad annoiarsi.

L’uso del commento sonoro, poi, è pessimo. A parte i bei temi conduttori di Badalamenti, certamente efficaci nei primissimi episodi, qui comunque decisamente meno sensati, l’idea di caratterizzare le scene inquietanti con specifici sottofondi astratti e cavernosi, mandati in loop senza alcun criterio, risulta essere, come dire, pura teoria, in quanto l’intento appunto forzosamente didascalico ne affiora decuplicato nella sua dichiarata volontà di stupire chi proprio non ha alcuna intenzione di stupirsi.

Le sequenze procedono circa così: la scena parte tranquillamente, poi accade qualcosa che introduce urla, frasi sconnesse, follia, visualizzazioni di luoghi “simbolici” che in realtà non vengono a dire un bel nulla, citazioni, che parimenti ci lasciano del tutto indifferenti, e infine tutto viene ricondotto alla normalità per effetto di frasi fatte, commenti idioti e banalità di ogni genere. Fine della scena, passiamo ad altro, e via così fino alla fine del film, non senza momenti di comicità involontaria, come detto.

Riassumendo: Se appunto escludiamo le idee e gli oggettivi risultati delle prime puntate, nel suo complesso ilTwin Peaks del periodo 1990-92 finisce per diventare il brodo allungato a dismisura attorno a un setting presto spiegato: In una certa cittadina, alcune giovanissime ragazze si prestano a giochi sessuali orditi da maturi mandanti altolocati, conditi da traffici di droga e prostituzione, e con sconfinamento in incesti e altre nefandezze. A partire da una certa puntata, è di rigore attribuire questa libidine distruttiva a forze soprannaturali, la cui descrizione — sempre più sfuggente ed ellittica — è affidata unicamente all’arbitrio di David Lynch, sulla base di quello che ha sotto mano: oggetti, materiali girati a caso, attori non professionisti, improvvisazioni del momento.

Sul serio. Non sto scherzando. Twin Peaks alla fine è questo e solo questo. Un episodio pilota di successo — con qualche idea veramente interessante (l’impianto di soap opera affiancato a una trama di investigazione, con personaggi grotteschi) — tramutato passo dopo passo in una sorta di isteria collettiva a puntate, dove qualsiasi unità formale e contenutistica viene a disintegrarsi pezzo per pezzo dopo l’avvento di BOB (l’entità demoniaca, o forse una delle entità demoniache implicate, non saprei dire con certezza) e di tutti i voli pindarici per darne una giustificazione. Punto, fine, stop. La stessa presenza fugace di David Bowie appare come ultima spiaggia per raccattare un consenso aggiuntivo, da affiancare al passaparola sulle tette della Palmer rivelate al mondo.

Il prequel in oggetto carica sul suo groppone tutto il peggio, facendo dimenticare il meglio, ahimè lasciato alle spalle un anno e passa prima. Lynch, amante delle sardine e del tiramisù, del risotto ai porcini e del frullato di banana, ha voluto confezionare una ricetta che includesse tutti questi ingredienti. Poi si è reso conto che faceva schifo: ha aggiunto zucchero, ma diventava troppo dolce. Ha aggiunto sale, ma virava sul salato. Poi si è reso conto che non funzionava. L’ha messa nel mixer per ottenere una salsa, e ha continuato a usarla per condire la scena successiva, ancora e ancora, fino a estreme conseguenze.

Poesie Musicassette e Gemellaggi

Solo per Me — Una poesia di questa mattina. Ho ripreso a scrivere poesie seguendo una sorta di implicito consiglio di Ray Bradbury. Il consiglio lo trovate nel libro Zen in the Art of Writing. Lo trovate, cioè, se lo cercate. Non è un libro particolarmente didascalico, anzi. Ma direi che è proprio questo il suo valore…

Austin Kleon musicassette — Peraltro, trovo interessante che Sherlock Holmes sia proprio in questa sua playlist. Mi piace l’idea. Da bambino ne facevo peraltro parecchie di musicassette personalizzate. Era un lavoro piuttosto istruttivo sul piano della creatività. Il digitale spinto ha rettificato di molto la nostra capacità manuale di fondere le cose per creare novità.

Burle e somiglianze musicali — Quella delle “somiglianze musicali”, per ogni musicista, è una sorta di ossessione. Il pop è pieno zeppo di somiglianze, ora volute, ora non volute, oppure anche subliminali: canzoni che scivolano in altre o sembrano essere fatte apposta per un mashup, ritornelli presi di peso, ispirazioni da schemi antichi o antichissimi, e via discorrendo. Tempo fa ho inserito questa cosa pure in un corso di songwriting tenuto a Vicenza, che ha goduto peraltro di un notevole successo. Detto questo, ascoltiamo di fila Giulio Cesare e Every Little Thing She Does Is Magic.

Solo per Me (poem)

Solo per Me
di Filippo Albertin

Bradbury insiste con la poesia.
Io insisto nell'approfondire i testi di oscure band
che sembrano avere in USA cinquant'anni di carriera
(mi riferisco agli Sparks,
e alla loro Sherlock Hokmes, che trovo stupenda
e che ho pure tradotto).
Bradbury scriveva a macchina
nei sotterranei delle biblioteche,
a 10 centesimi di dollaro per ogni mezz'ora.
Io mi sono deciso di scrivere
ai fosfori verdi,
perché mi ricorda l'infanzia.
Merlino mi salta sulla spalla
per raggiungere miagolando il letto
con un balzo ulteriore,
uno dei tanti della sua collezione.
Così come lui colleziona salti e capriole
io colleziono impressioni, tentativi di memorie,
ovvero prove di distillazione di un certo liquore
che possa essermi utile dopo decenni di oblìo.
Leggo Bradbury, mi immergo in quel poco di illuminante
(e vi assicuro che è già tanto e forse troppo)
che posso trarre dalla sua esistenza di scrittore.
Ascolto una vecchia canzone degli Sparks
che esattamente come per Twin Peaks
all'epoca non avevo mai ascoltato,
e già questa mi sembra antica,
come la poesia che ora scrivo solo per me.

Vicenza, 24 marzo 2024

Tre Cover di Sherlock Holmes (Sparks)

La canzone la adoro. Letteralmente.

Proprio per questo, e proprio per non ascoltarla mille volte cantata sempre in versione originale, ho deciso di cercare tre cover. Gli statunitensi ci sanno fare su queste cose. Sono appassionati. Ci mettono del loro.

Per non parlare di questa deliziosa ragazza…