Poesie Musicassette e Gemellaggi

Solo per Me — Una poesia di questa mattina. Ho ripreso a scrivere poesie seguendo una sorta di implicito consiglio di Ray Bradbury. Il consiglio lo trovate nel libro Zen in the Art of Writing. Lo trovate, cioè, se lo cercate. Non è un libro particolarmente didascalico, anzi. Ma direi che è proprio questo il suo valore…

Austin Kleon musicassette — Peraltro, trovo interessante che Sherlock Holmes sia proprio in questa sua playlist. Mi piace l’idea. Da bambino ne facevo peraltro parecchie di musicassette personalizzate. Era un lavoro piuttosto istruttivo sul piano della creatività. Il digitale spinto ha rettificato di molto la nostra capacità manuale di fondere le cose per creare novità.

Burle e somiglianze musicali — Quella delle “somiglianze musicali”, per ogni musicista, è una sorta di ossessione. Il pop è pieno zeppo di somiglianze, ora volute, ora non volute, oppure anche subliminali: canzoni che scivolano in altre o sembrano essere fatte apposta per un mashup, ritornelli presi di peso, ispirazioni da schemi antichi o antichissimi, e via discorrendo. Tempo fa ho inserito questa cosa pure in un corso di songwriting tenuto a Vicenza, che ha goduto peraltro di un notevole successo. Detto questo, ascoltiamo di fila Giulio Cesare e Every Little Thing She Does Is Magic.

Solo per Me (poem)

Solo per Me
di Filippo Albertin

Bradbury insiste con la poesia.
Io insisto nell'approfondire i testi di oscure band
che sembrano avere in USA cinquant'anni di carriera
(mi riferisco agli Sparks,
e alla loro Sherlock Hokmes, che trovo stupenda
e che ho pure tradotto).
Bradbury scriveva a macchina
nei sotterranei delle biblioteche,
a 10 centesimi di dollaro per ogni mezz'ora.
Io mi sono deciso di scrivere
ai fosfori verdi,
perché mi ricorda l'infanzia.
Merlino mi salta sulla spalla
per raggiungere miagolando il letto
con un balzo ulteriore,
uno dei tanti della sua collezione.
Così come lui colleziona salti e capriole
io colleziono impressioni, tentativi di memorie,
ovvero prove di distillazione di un certo liquore
che possa essermi utile dopo decenni di oblìo.
Leggo Bradbury, mi immergo in quel poco di illuminante
(e vi assicuro che è già tanto e forse troppo)
che posso trarre dalla sua esistenza di scrittore.
Ascolto una vecchia canzone degli Sparks
che esattamente come per Twin Peaks
all'epoca non avevo mai ascoltato,
e già questa mi sembra antica,
come la poesia che ora scrivo solo per me.

Vicenza, 24 marzo 2024

Tre Cover di Sherlock Holmes (Sparks)

La canzone la adoro. Letteralmente.

Proprio per questo, e proprio per non ascoltarla mille volte cantata sempre in versione originale, ho deciso di cercare tre cover. Gli statunitensi ci sanno fare su queste cose. Sono appassionati. Ci mettono del loro.

Per non parlare di questa deliziosa ragazza…

L’Arte nel Regno di Eris (un prologo)

La mia opinione in materia è facilmente sintetizzabile in una domanda: Che arte può esistere in un mondo in cui non esiste “spaziotempo” per l’arte stessa? Mi spiego meglio… Il tutto si può comprendere identificando le due fenomenologie parallele in conflitto che caratterizzano il problema.

La prima è la sempre più risicata disponibilità di un luogo in cui l’arte possa avere una funzione. Ricordiamo a grandi linee ciò che disse Italo Calvino sui classici. Un classico — cito a memoria e logicamente sintetizzo, ma il succo è questo — altro non è che un’opera d’arte che non finisce mai di dire quello che ha da dire; ossia, un’opera che ha senso leggere e rileggere per un tempo indefinito. Ebbene, esiste oggi un’opera contemporanea che possa godere di un orizzonte temporale di questo genere?

Lo vediamo nel web: tutto è rapido, ovvero istantaneo, autoconclusivo, basato su linguaggi memetici, giudicato unicamente sull’effetto immediato, sulle reazioni che suscita al momento, indipendentemente dalla profondità o dalla funzione nel tempo a venire. Può esistere arte in grado di assurgere a “classico” in questo contesto caotico? La risposta, secondo me, è negativa, nel senso che anche ciò che affiora dovrà in qualche modalità perversa obbedire alla logica del contesto nel quale è affiorato.

Neppure i grandi autori, ormai, sfornano opere destinate a diventare dei classici, o comunque prodotti con una funzione ulteriore alla vendita di una copertina con un nome sopra. L’intero mercato dell’arte è diventato il colossale scenario di una concorrenza dell’usa e getta.

La seconda riguarda, paradossalmente, il sempre più elevato numero di “aspiranti artisti” che acquistano corsi e corsetti per fingere a sé stessi di avere un qualche talento da vendere. Un talento che però rimane confinato al mercato di cui sopra, fatto al più di compitini per casa che somigliano tanto all’output di catene di montaggio che, guarda caso, si chiamano proprio talent show.

In definitiva, ci sono troppi autori in uno spazio sempre meno frequentato da fruitori, e la risultante può essere solo vincolata alla legge dei grandissimi numeri in aree del pianeta come l’Asia o gli Stati Uniti.

Ecco perché secondo me deve per forza sorgere una nuova forma d’arte, costruita in modo tale da essere “sensatamente fruibile” nel mondo della discordia e del caos, ovvero — per usare una metafora classica abbondantemente ripresa dalle narrative discordiane — nel regno di Eris.

Maratona Twin Peaks “Il Ritorno” Parte 2

Ebbene sì. Siamo arrivati — io e mia moglie — a vedere anche tutta la terza fantomatica terza serie (il ritorno, venticinque anni dopo, o come volete chiamarla) di Twin Peaks, ivi compresa la diciottesima puntata che si chiude con una molto stressante battuta: “In che anno siamo?” (Urla del tutto ingiustificate della sosia — o non so cosa — di Laura Palmer versione stagionata, e titoli di coda.)

Quest’ultima fatica è l’ennesima di una lunga maratona che ho avuto modo di snocciolare ai miei lettori punto per punto.

Ora, non abbiamo ancora visto il film “prequel” del 1992, ok, e molti di voi diranno che no, che è una lacuna imperdonabile, che bisogna vederlo a tutti i costi per capirci qualcosa, e via discorrendo. Ma io mi chiedo: cosa mai potrei vedere in un film, peraltro riferito a fatti cronologicamente precedenti a quelli narrati nei trenta episodi della serie classica, per capire quello che Lynch ha voluto dire in questi diciotto episodi uno più melmoso e faticoso dell’altro?

Diciamocela tutta. Attori magnifici, qualche momento veramente emozionante, citazioni e auto-citazioni a non finire (molte delle quali divertenti), camei, simbolismi, e chi più ne ha più ne metta… Ma alla fine della giostra (o del giorno, per citare una canzone piantata lì per farci digerire cinque minuti di inutile amplesso) cosa mi resta di questa mitologia televisiva durata ventisette anni?

In termini di cronologia mi sono già espresso, e posso sintetizzare l’idea in poche battute. Twin Peaks nella sua versione storica altro non è che un grande successo in forma di “soap opera tinta di giallo dai toni oscuri e surreali”, dove Lynch ha pigiato l’acceleratore fino a trasformare l’intero progetto, a circa metà della seconda stagione, in un suo giocattolo comunicativo dove sperimentare gli enigmi più disparati in tema di metafore esoteriche, paradossi temporali, simbologie freudiane, possessioni demoniache, abbozzi di teorie cosmologiche sullo spaziotempo, e chi più ne ha più ne metta. La terza stagione altro non è che una colossale fan-fiction che riprende tutto questo materiale per farlo lievitare a livello parossistico, fino a un finale che ovviamente non conclude un bel nulla, ma anzi pontifica ulteriormente sulla superiorità del regista rispetto a noi comuni plebei incapaci di capire.

Ora, intendiamoci. La mia polemica non vuole assolutamente scalfire la grandezza di questo importantissimo cineasta, autore di indiscussi capolavori e caratterizzato da uno stile che, piaccia o non piaccia, ha fatto la storia del linguaggio visivo. Ma il carrozzone quasi trentennale di Twin Peaks, diciamocelo chiaramente, visto tutto in una volta appare come una grandiosa e direi anche faticosa arrampicata sugli specchi per mimare a tutti i costi la genialità onnivora di un prodotto che, in realtà, è solo una cosa: un’occasione mancata.

Le ellissi temporali, i silenzi, le assurdità disseminate ovunque, sarebbero state perfette, se solo il regista avesse dato prova concreta di sapere dove andare a parare. I viaggi nel tempo diluiti fino allo sfinimento, quelle fastidiosissime immagini in sovrapposizione — che sarebbero andate bene in un buon pezzo di Peter Greenaway, magari un documentario da Biennale — mescolate a stop-motion che pure negli anni Sessanta avrebbero giudicato fatta malamente, per non parlare dei tanti, troppi inserti astratti, che non giudico insostenibili in quanto incomprensibili, ma insostenibili perché lesivi di una qualsivoglia razionalità ritmica della narrazione, tutte, ma proprio tutte queste cose le avrei tranquillamente accettate. Ma non così. Non lungo una quindicina di ore condotte senza un minimo di solidità del costrutto “a monte” di ogni movimento e scelta registica.

Certo, mi rendo di quanto tutto il progetto Twin Peaks scaturisca in fondo da un dirottamento folle, da un compito per casa praticamente impossibile: correggimi un mystery classico “a tinte forti” per farlo diventare un trattato di tuttologia esoterica, tenendo presente che le puntate già andate in onda non si possono modificare. Però è Lynch che ha preso questa strada. Lui e solo lui ha voluto forzare la mano della produzione per giungere a questi voli pindarici.

Operazione di successo? Ok. Anche Sanremo — lungi da me il volerla associare a Lynch — ha successo, eppure a me non piace. Tanto più che l’esoterismo spiegato alle masse tramite entità demoniache frutto di errori compiuti sul set, o attraverso effetti sonori fastidiosi, o improbabili band riprese a fine puntata, non credo abbia prodotto chissà che illuminazioni mistiche negli spettatori.

Qua e là, di trovate carine, ce ne sono indubbiamente: il tema del doppio cattivo, i fratelli gangster che alla fine si rivelano di buon cuore (a mio avviso, neppure poi tanto, ma concediamo a Cooper questa licenza poetica), qualche scazzottata dai tratti abbondantemente soprannaturali, e via discorrendo. Ma il problema è un altro, e qui giungo veramente all’ultima parola sul progetto.

Twin Peaks è quello che è di solito una soap opera, ovvero un campo espressivo televisivo profondamente seriale dove il regista, giorno dopo giorno, si chiede: “Che combiniamo oggi con gli attori? A che punto siamo? Cosa possiamo inventarci?” Purtroppo, però, la forma operativa di Twin Peaks non poteva assolutamente andare di pari passo con l’obiettivo sostanziale dichiarato o fatti intendere, ossia la volontà tutta autoriale di illustrare una metafisica prepotentemente soprannaturale che — per definizione — avrebbe dovuto essere non chiara, ma chiarissima “a monte” (perdonate l’implicita battuta che allude solo per caso alle “vette gemelle”) negli intenti del regista. Cosa che non è mai stata; o, se lo è stata, non ha mai avuto modo di dare eloquente prova di sé.

Insomma, a me pare che la troppa carne al fuoco abbia “camminato con Lynch” per troppe puntate. Tanto che ora è veramente giunto il momento di mettere la parola fine, passando ad altro e confidando in progetti più unitari e comprensibili.